JRR Tolkien (1892-1973), compassato professore di filologia e letteratura a Oxford, più famoso in quanto autore del Signore degli Anelli e de Lo Hobbit, ha avuto unʼaccoglienza quanto meno inaspettata in Italia. Il suo romanzo principale, scritto fra il 1937 e il 1949, e uscito in Inghilterra in tre tranche fra il 1954 e il 1955, viene pubblicato in italiano prima da Astrolabio (1967, solo il primo dei tre volumi, La Compagnia dellʼAnello) – senza alcun successo editoriale – e poi completamente solo nel 1970 da Rusconi. Questo volume portava – e porta tuttʼora nellʼedizione Bompiani (dal 2000)- unʼestesa introduzione a cura di Elémire Zolla, grande erudito ed esperto di filosofia ed esoterismo.
Il libro viene subito esaltato e consigliato dalle riviste di destra da personaggi del calibro di Gianfranco de Turris, Franco Cardini, Marco Tarchi e Gianfranco Fini. Da quel momento inizia lʼappropriazione di Tolkien da parte della destra neofascista italiana e soprattutto da parte del mondo giovanile e dalle voci più critiche e “anarchiche” allʼinterno del Movimento sociale italiano. La cosa appare particolarmente strana se consideriamo che in contemporanea, negli Stati Uniti, sempre negli anni Settanta, The Lord of the Rings fu subito un fenomeno di culto, soprattutto negli ambienti di sinistra! Tanto che lo stesso Rusconi – nel presentarlo in Italia – aveva scritto sulla fascetta sopra la copertina questo slogan: “la Bibbia degli Hippies”.
Ma alla fin fine Tolkien è un autore di destra o di sinistra? La risposta è: nessuna delle due. A chi glielo chiedeva il professore di Oxford rispondeva che lui propendeva piuttosto per lʼanarchia -intesa come assenza di controlli (e non in senso rivoluzionario)- oppure per la monarchia assoluta non costituzionale. Parlava ironicamente. Ma la sua ironia non venne compresa. Le fonti di ispirazione di Tolkien sono molto più antiche della distinzione contemporanea fra destra e sinistra e affondano le sue radici in due tradizioni: la mitologia germanica e la teologia cristiana. Il resto deriva tutto dalla sua esperienza personale. Tolkien è un uomo che ha combattuto per Sua Maestà Britannica nelle trincee della Prima guerra mondiale e i cui figli maschi sono scesi in campo contro le potenze dellʼAsse durante la Seconda.
I capitoli più cupi del libro, quelli in cui gli hobbit Frodo e Sam attraversano le desolazioni della terra morta di Mordor (molto simile alle descrizioni della “terra di nessuno” dei War Poets britannici) li spediva uno dopo lʼaltro al figlio Christopher schierato con la RAF sul fronte africano. Per dire quanto fosse lontano dal fascismo e dal nazismo basta citare altri due episodi: quando gli venne chiesto di dichiararsi “ariano” per lʼedizione tedesca de Lo Hobbit rifiutò seccamente, replicando -sempre con ironia- che non capiva che cosa significasse quel termine, ma che se gli editori avessero voluto chiedergli se lui era ebreo, allora doveva dire che gli spiaceva molto, purtroppo, di non appartenere a quel popolo straordinario.
Dellʼaltro episodio sono stato testimone diretto. Nel 1999 mi recai in visita ad Oxford e conobbi due dei suoi figli, il maggiore, John, prete cattolico, era a Roma a studiare durante gli anni del fascismo immediatamente precedenti alla guerra. Lʼunica frase che mi disse in italiano fu: «Abbasso Mussolini!», apparentemente era questo il motto degli studenti stranieri a Roma, protetti sotto lʼegida del Vaticano. Quanto a Hitler, per Tolkien era un ridicolo ometto che aveva rovinato tutto quello che cʼera di buono dello spirito tedesco e rispetto a Wagner lʼunica analogia fra il suo Anello e quello dei Nibelunghi era il fatto che entrambi gli anelli erano rotondi.
Come si spiega allora lʼesperienza dei quattro Campi Hobbit dei giovani del Movimento sociale fra il 1977 e il 1981? È semplice: tramite una lettura “allegorica” non autorizzata del Signore degli Anelli, suggerita da Zolla nella sua introduzione e propugnata dallʼorganizzatore dei campi, Marco Tarchi. La lettura data allʼopera tolkieniana era di carattere mistico ed esoterico, come per i testi di Julius Evola, ma con un autore più simpatico, mainstream, che piaceva ai giovani e garantiva di raggiungere un pubblico ampio di appassionati. Lʼaccento era tutto volto alla tradizione, alla figura dellʼeroe, alla epica lotta del bene contro il male. Tutti temi presenti nel Signore degli Anelli, ma non in senso allegorico e non in primo piano. Lʼargomento del libro, secondo lʼAutore, infatti, e io concordo è: la mortalità e la sua accettazione.
A onor del vero lo stesso Tarchi ammetteva – già allʼepoca – che Il Signore degli Anelli era “applicabile”, ossia “riproponibile al lettore nella propria, personale ed irripetibile, condizione”, non allegorico. Parole che sembrano riecheggiare da vicino la premessa fatta dall’autore nella seconda edizione inglese del libro, datata 1966, ma inclusa solo recentissimamente nella traduzione italiana dellʼopera:
Io però detesto cordialmente lʼallegoria in tutte le sue manifestazioni, e lʼho sempre detestata da quando sono diventato abbastanza vecchio e attento da scoprirne la presenza. Preferisco di gran lunga la storia, vera o finta che sia, con la sua svariata applicabilità al pensiero e allʼesperienza dei lettori. Penso che molti confondano “applicabilità” con “allegoria”; lʼuna però risiede nella liberta del lettore, e lʼaltra nellʼintenzionale imposizione dello scrittore. Un autore non può naturalmente rimanere del tutto insensibile alla propria esperienza, ma i modi nei quali il seme di una storia usa il terreno dellʼesperienza sono estremamente complessi, e i tentativi di definire il processo sono nel migliore dei casi supposizioni basate su indizi inadeguati e ambigui.
La croce celtica, dunque, poco cʼentra con elfi, hobbit, orchi, nani e stregoni. Ma la libertà di distorcere unʼopera e di appropriarsene per i propri scopi rimane, come viene fatto da che mondo e mondo da tutti i regimi fanatici e totalitari. Davanti alle loro regole Tolkien probabilmente avrebbe avuto la stessa risposta schietta e “anarchica” dello hobbit Peregrino Tuc che, tornato a casa sua e trovatala trasformata in una sorta di kolchoz sovietico, strappa la lunga lista di regole appesa alla porta della “casa comune” dai sedicenti guardiani dellʼordine costituito, venuti a “raccogliere” tutto e a “distribuire” quasi niente. E questa libertà non è prerogativa né della destra né della sinistra, ma di qualunque persona libera di ragionare e scegliere con la propria testa.