«Il Titanic. Sembrava il Titanic». Così dicono i passeggeri della Costa Concordia, naufragata nei pressi dell’isola del Giglio. «Scene da Titanic»: l’immagine è ripresa al volo dai media. Il centenario fa anche la sua parte, dato che il transatlantico naufragò nel 1912. Ma sembra che, di fronte a una nave che affonda, il pensiero corra subito là, un episodio storico e famoso anche grazie al cinema. Sarà stato l’urto improvviso, il richiamo del capitano, la corsa al quarto livello per raggiungere le scialuppe. Poi, il panico, la lotta tra passeggeri e, alla fine, l’arrivo dei soccorsi: il salvataggio, purtroppo non per tutti.
Il Titanic, certo. Ma affiora, nella memoria, anche il ricordo di un altro naufragio, dall’esito tragico e disperato, di quarant’anni fa. Con tutte le differenze, è quello della London Valour, cantato anche da Fabrizio De André nell’album Rimini. Quella, affondata all’imboccatura del porto di Genova nel 1970, era una nave mercantile e batteva bandiera inglese. La Costa Concordia è invece una nave da crociera e di proprietà americana (la Costa, dal 1997, ha ceduto il pacchetto di maggioranza alla Carnival Corporation & Plc). In entrambi i casi, però, le sciagure sono stati provocate da uno scoglio.
Era la mattina del 9 aprile. La London Valour, con una stazza di 26mila tonnellate, era ancorata di fronte al porto di Genova. In gergo, alla fonda. A un chilometro dalla diga foranea che protegge il porto della Superba, i marinai, in gran parte indiani e filippini, erano intenti nell’operazione di smontaggio dei propulsori. Il tempo era tranquillo e il cielo terso. Anche il vento era calmo.
Secondo le testimonianze, tutto cambiò presto. Alle 13.00 si alzò una violenta folata di libeccio che cominciò a spingere la nave verso la terraferma. Alle 14.30 «l’ancora non ha più resistito alla pressione», racconta, anni dopo, uno dei marinai «e abbiamo cominciato ad avvicinarci sempre più alla barriera che protegge il porto». È un attimo. La nave schianta con forza contro uno scoglio, aprendo una falla. È grave.
Il vento, intanto, non cala. Anche se partiti subito, i soccorsi delle varie motovedette della Capitaneria di Porto sono resi impossibili dal libeccio e dalle onde, che li respingono e tengono a distanza dalla London Valour. Eppure si doveva fare in fretta. Alle 14.45, insieme a quei pochi soccorritori che sono riusciti a vincere il vento, viene preparato un “va e vieni”, cioè una doppia cima di nylon che collega il ponte della nave alla diga. Lungo la corda viene fatto scivolare un membro dell’equipaggio alla volta. Ma non va. La nave, subendo la pressione, si spezza in due. Chi è già sul “va e vieni” viene sollevato e sbalzato in aria, e muore sbattuto sugli scogli. Solo tre marinai indiani riescono a cavarsela. Anche la moglie del comandante della nave, Dorothy Muir, era sulla carrucola. Ma non riuscì a reggere la presa, finendo in mare sotto gli occhi del marito. Questo è il momento più drammatico della vicenda.
Le cronache, sul punto, divergono. Lui, in un tentativo insieme disperato e inutile di salvarla, si mette addosso il giubbetto di salvataggio e si lancia in acqua, morendo insieme. Oppure, come sostiene il Comandante Carlo Gatti, che ebbe conoscenza dei fatti e si occupò del recupero del relitto, il capitano Muir, dopo aver visto cadere la donna, la saluta sventolando la bandiera inglese, per poi morire spazzato dalle ondate che si abbattevano sul ponte della nave. Oppure ancora, come sostengono altri, il capitano fu visto ancora una volta prima di scomparire per sempre, con una ferita alla gamba. Come sia andata davvero, non si sa.
Ma nella disgrazia della London Valour c’è spazio anche per storie di eroismo e valore. Come quella della motovedetta CP233, l’unica che ha raggiunto la nave. I marinai hanno salvato 26 persone in un’operazione complicatissima e coraggiosa, rischiando la vita. Oppure quella del capitano Rinaldo Enrico, dei Vigili del Fuoco e amico di Fabrizio De André: contro un vento a 100 km orari, decide, incurante, di sfidare il pericolo e levarsi in volo con l’elicottero per lanciare salvagenti ai marinai, sbattuti dalle onde e appesantiti dal combustibile che, nel frattempo, usciva dallo scafo della nave. Oppure ancora, il pilota Capitano Giovanni Santagata, che coordinò dalla sua lancia, gli aiuti.
Insomma, in tutto fu un disastro, una ferita. Genova, di fronte, poté solo stare a guardare. Secondo le inchieste successive, la responsabilità sarebbe da attribuire alla superficialità del capitano Muir, che avrebbe sottovalutato la forza del libeccio. Di tutto quello che era accaduto in quel 9 aprile 1970, restò poco. Il relitto, visibile sopra il filo dell’acqua, rimase lì ancora per un anno prima del traino. Poi la campana di bordo, e infine, una canzone di De André. Perché non c’è solo il Titanic. La storia dell’uomo è, da sempre e per tutti, fatta di naufragi.