Immaginate un giorno in cui vi collegherete a Google, a Facebook, a Yahoo!, ad Amazon, a Wikipedia – e tutto quello che troverete sarà sempre la stessa pagina, che annuncia la sospensione del servizio per sciopero. Nessuna risposta, nessuna conversazione, nessuna mail, nessun libro e nessuna informazione.
Questo giorno di buio completo sulla Rete potrebbe accadere tra pochi giorni, forse il 23 gennaio in reazione ad un disegno di legge presentato dal deputato repubblicano Lamar Smith al Congresso USA. Il testo normativo contestato si chiama SOPA (Stop Online Piracy Act), e contiene un pacchetto di misure volte a tutelare gli interessi economici fondati sulla proprietà intellettuale delle grandi case di produzione discografica e cinematografica. I deputati e i senatori che sostengono l’approvazione del disegno di legge sono finanziati dalla Motion Picture Association of America – ma anche dall’associazione dei pompieri, che ritiene di perdere con la pirateria i soldi a sostegno dei servizi di emergenza provenienti dalle tasse.
L’obiettivo delle misure è quello di oscurare i siti che ospitano contenuti accusati di violare il diritto d’autore. Questo significa che l’intervento del procuratore non si limita a perseguire il responsabile della presunta infrazione, ma procede a oscurare anche il dominio dei siti che ospitano i file incriminati o che collaborano a renderli rintracciabili per il pubblico. In altre parole, se vi capitasse di filmare il vostro bambino che balla nel girello mentre sullo sfondo ronza in modo incomprensibile la canzone Let’s go crazy di Prince, e decideste di pubblicare il video su YouTube per mostrarlo ai nonni e di linkarlo su Facebook per commentarlo con gli amici – la denuncia della Universal condurrebbe alla chiusura di YouTube per la pubblicazione del file, alla chiusura di Facebook per la sua divulgazione, e a quella di Google per averlo indicizzato e reso disponibile nei listati di risposte di chi cercasse il vostro nome o quello del bambino.
La colpa di YouTube, di Google e di Facebook sarebbe quella di non aver vigilato a sufficienza sul vostro tentativo di aggressione ai fondamenti della proprietà privata, della concezione liberale del mondo e della democrazia. L’esempio è reale, dal momento che la Universal ha davvero perseguito (perseguitato?) per vie legali Stephanie Lenz accusandola di aver violato la proprietà intellettuale con questo video. Non ancora appagato da questa battaglia insensata contro nonni e neonati, il mondo meraviglioso delle case di produzione sogna un mondo definitivamente surreale: ogni minuto su YouTube vengono inseriti video per un equivalente di 48 ore di proiezione, e il personale di Google dovrebbe monitorarli tutti per impedire che da qualche parte possa spuntare l’ombra minacciosa della violazione del copyright. I dipendenti di Facebook dovrebbero leggere i 60 miliardi di post prodotti ogni giorno sulla piattaforma, ascoltare e compulsare ogni contenuto linkato dagli utenti con disinvolto disprezzo delle regole sulla privacy, per evitare che un rumore di fondo possa essere confuso con una canzone di Prince o le movenze di un passante possano sembrare la citazione di Leonardo Di Caprio nell’ultimo film di Clint Eastwood. Google dovrebbe controllare tutte le pagine degli oltre 50 miliardi di domini che indicizza, per estirpare dai listati di risposte i link alle minacce potenziali del copyright.
L’oscuramento dei domini che non prestano sufficiente attenzione a tutelare le case di produzione potrebbe essere ordinato dal procuratore, senza un dibattito giudiziario, come mossa preventiva rispetto alla prosecuzione dell’inadempienza. La Camera di Commercio stima in 135 miliardi di dollari le perdite subite dai titolari del diritto di proprietà intellettuale a causa della pirateria informatica. Nessuno però si impegna a spiegare in che modo il video di Stephanie Lenz possa aver in qualche modo impedito l’acquisto dei dischi di Prince da parte degli altri utenti di YouTube; né viene mai chiarito per quali ragioni le operazioni di citazione, modifica, manipolazione, potrebbero condurre ad una diminuzione delle vendite.
La valutazione dei mancati profitti si fonda sulla considerazione del tutto improbabile che tutti i file scambiati, visualizzati e scaricati sulla Rete equivalgano in corrispondenza biunivoca a contenuti che sarebbero stati acquistati in assenza di sistemi p2p. Da un punto di vista sociometrico ed economico si tratta di un assunto ingenuo, mentre dal punto di vista della strategia di comunicazione è una costruzione argomentativa del tutto capziosa. L’unica evidenza consiste invece nel fatto che le case di produzione ritengono preferibile innescare una guerra che azzeri il mondo come lo conosciamo dopo la diffusione universale di Internet, piuttosto che esplorare le esigenze dei clienti e costruire un nuovo modello di business in grado di soddisfarle. Nella loro concezione il pubblico è una schiera di sudditi e non un sistema di reti sociali popolate da interlocutori.
Occasionalmente i politici potrebbero ricordarsi di non essere finanziati solo dalle lobby, ma di essere pagati anche dallo Stato per interpretare i bisogni della società che dovrebbero amministrare. In America, almeno, i cittadini possono sapere in modo trasparente quali sono le organizzazioni che si oppongono all’interesse collettivo per sostenere il proprio business; in Italia per raggiungere lo stesso risultato bisogna ricorrere all’immaginazione e alle inchieste. Ma in nessun luogo è più legittimo aggirare la constatazione che il mondo vive su una struttura di produzione e accesso alle informazioni fondata su motori di ricerca e social network; la politica non può esimersi dal compito di progettare una civiltà che in questo contesto potenzi i processi di libertà e di spirito critico dei cittadini – senza concedersi fantasticherie su un regresso alla cultura cavernicola del broadcast televisivo e dei circuiti di distribuzione read only. Google, Facebook, Yahoo!, YouTube, non possono essere inquadrati in una normativa editoriale perché il loro successo coincide con l’estinzione stessa del monopolio editoriale sulla selezione dei temi di interesse pubblico, sulla produzione dei contenuti e sulla loro distribuzione.
Google, Amazon, Yahoo!, Facebook, e altre società della Silicon Valley sono associate in un’organizzazione che si chiama NetCoalition, e che si sta facendo carico di coordinare la reazione della Rete e dei social media alla minaccia di SOPA. L’approvazione del disegno di legge rappresenterebbe una sorta di interdizione generale al funzionamento dei loro servizi e del loro modello di business. Lo sciopero del 23 gennaio viene etichettato con il nome roboante di nuclear option dal portavoce della NetCoalition, Markham Erickson. Al di là delle esigenze di rumore della comunicazione, se il black out dovesse verificarsi la federazione della Silicon Valley andrebbe alla prova di forza contro la cultura editoriale tradizionale, tentando di imporre la necessità di una nuova visione del mondo ad una classe dirigente che non ha mai voluto capirne le ragioni né trarne le conseguenze. Nessuno riporterà qualche guadagno dallo scontro, che potrebbe essere evitato tramite la moltiplicazione degli esperimenti di “rimediazione” (per usare un’espressione di Bolter) come Google Music o iTunes Match – sempre in attesa del momento in cui qualcuno vorrà spiegarci perché debba essere meglio l’imposizione della fama universale di LadyGaga invece della proliferazione dei fenomeni musicali di nicchia, o perché si debbano tutelare i costi astronomici dei Pirati dei Caraibi o di Spider-Man 3, invece di agevolare esperimenti di successo come Clerks o Oren Peli. Ma la crisi che stiamo attraversando ha una natura culturale prima ancora che economica, e a memoria d’uomo non si ricordano rivoluzioni culturali senza atti di forza.
* Epistemologo, fondatore di Pquod