Governi e multinazionali vogliono censurare la Rete? E la Rete reagisce. Nei mesi scorsi, tramite proteste sempre più clamorose: dall’auto-oscuramento di Wikipedia, in Italia e negli Stati Uniti, così come di svariati siti e blog, alle centinaia di migliaia di persone scese in piazza in tutta Europa per chiedere che il web resti libero. E che anche oggi sono tornate in strada, dalla Germania alla Francia, dalla Danimarca alla Bulgaria. In prima linea la community di Reddit, il popolare portale di social news. Che ha compiuto in queste ore un salto di qualità, passando dalla protesta alla proposta. L’idea è venuta a un utente austriaco, che preferisce farsi identificare con il suo nickname, RoyalWithCheese22: perché non stendere collaborativamente, tutti insieme, un vero e proprio Freedom of Internet Act, cioè un atto – tra la legge nazionale e il trattato internazionale – che stabilisca i confini entro i quali sono consentite censura, sorveglianza e responsabilità dei cittadini digitali?
L’obiettivo è dare la governance del web in mano ai netizen, e non agli Stati, consentendo ai cittadini di «navigare liberamente senza alcun tipo di censura» e garantendo loro il «diritto alla libera espressione e alla libera conoscenza». Ambizioso, anche se non quanto la precedente iniziativa dei frequentatori di Reddit: costruire una Rete alternativa a Internet, radicalmente distribuita e per questo incensurabile. Ma la strategia è «mirare altissimo», si legge sull’apposita pagina di discussione creata sul sito, «così da poter fare qualche passo indietro e raggiungere un compromesso». Gli sforzi hanno portato a una prima bozza. Che, pur se aperta alle correzioni degli utenti e in continuo divenire, marca già dei paletti importanti. Nessuna censura, a parte nei casi illustrati e secondo la ampia definizione di “censura” data nel testo – ma mai per imposizione unilaterale di un governo. Nessuna responsabilità dei provider per contenuti postati dai suoi utenti. Allo stesso modo, i fornitori del servizio Internet non possono essere obbligati a monitorare il traffico generato dai loro clienti, né imporre alcun sistema di filtraggio.
Ancora, proprio mentre l’industria dell’intrattenimento spinge – attraverso un’attività lobbistica senza precedenti – per procedure sommarie per la rimozione di contenuti ritenuti in violazione del diritto d’autore, la bozza prevede che un avviso sia notificato agli utenti e ai provider 30 giorni prima della cancellazione dei file incriminati, così da garantire all’utente la possibilità di difendersi e al provider di disobbedire all’ordine di rimozione fino al pronunciamento dell’autorità giudiziaria. Anche in caso di colpevolezza, poi, l’importo delle ammende viene calcolato in proporzione al numero di utenti che abbiano ricevuto il file condiviso.
Da ultimo, si dichiara apertamente che l’uso di strumenti per rendere anonima la propria connessione è «protetto» e che nessun cittadino di Internet possa essere considerato un «sospetto» per il solo fatto che vi fa ricorso per rendere invisibile il contenuto delle sue navigazioni. Una previsione importantissima per dissidenti e attivisti digitali in regimi non democratici.
Ma come si è giunti alla stesura di un manifesto per la libertà di Internet? Perché migliaia di netizen lo considerano necessario? Per rispondere a questa domanda è indispensabile ricordare che la storia recente del web è anche e soprattutto la storia della battaglia tra chi vorrebbe nuovi strumenti legislativi per meglio tutelare il diritto d’autore online e chi ritiene che quel tentativo si traduca, nei fatti, in una stretta repressiva sulla libera espressione dei cittadini digitali.
Il caso più eclatante si è consumato negli Stati Uniti, per due proposte di legge gemelle chiamate SOPA (Stop Online Piracy Act) e PIPA (Protect Ip Act). Norme che, se approvate, avrebbero reso materia da codice penale lo streaming illegale di contenuti, consentito ai provider il blocco all’accesso di siti esteri accusati di «facilitare» la violazione del copyright, oltre alla loro rimozione dai motori di ricerca, e impedito ai trasgressori di ospitare contenuti pubblicitari e usufruire di servizi di pagamento online.
Dopo lo sciopero di migliaia di siti lo scorso 18 gennaio, e l’opposizione di colossi come Google, Twitter e Wikipedia, i proponenti hanno fatto retromarcia e rimandato a data da destinarsi la discussione delle due norme. Ma il principale sponsor di SOPA, Lamar Smith, ha negli scorsi giorni mostrato di non demordere, tornando alla carica con la proposta di legge H.R. 1981, che darebbe ai provider l’obbligo di conservare per 18 mesi tutti i dati di navigazione dei loro utenti. Inutile aggiungere che le major ringrazierebbero. Non a caso previsioni simili sono contenute in una legge che sta facendo discutere il Canada, la C-30, per cui si è per l’ennesima volta scomodata la retorica dell’orwelliano Grande Fratello in salsa digitale.
Ma norme dall’impianto simile a SOPA e PIPA sono state avanzate in Irlanda come a Singapore. In Spagna si chiama SINDE: accusata di incostituzionalità dalle associazioni in difesa dei netizen, è attualmente al vaglio della Corte Suprema. Era stata approvata a febbraio 2011 dopo che, come scoperto grazie ad alcuni cablo di WikiLeaks, vi erano state forti pressioni da parte del governo statunitense in tal senso. Chissà se lo stesso si può dire per l’oramai defunto emendamento del deputato leghista Gianni Fava, che avrebbe imposto la rimozione di contenuti illeciti su segnalazione di «qualunque soggetto interessato». Di certo c’è un viaggio dell’esponente del Carroccio negli States, proprio per incontrare Smith.
E mentre l’industria italiana del copyright chiede un ritorno alla severità della prima stesura della delibera Agcom, quella per cui Wikipedia aveva inaugurato la pratica dell’auto-censura, l’attenzione si sposta a livello internazionale, su ACTA, il trattato anti-contraffazione – ma contenente norme sul diritto d’autore online – a lungo discusso a porte chiuse recentemente approvato dall’Europa e da oltre venti paesi membri. Inizialmente la sua bozza prevedeva l’adozione di modelli “three-strikes” (tre violazioni e scatta la disconnessione) come l’Hadopi francese. Oggi il testo è più vago, ma non per questo meno pericoloso – sostengono i tanti critici. Tra cui il suo precedente relatore al Parlamento Europeo, Kader Arif, dimessosi in protesta dopo la firma Ue. E centinaia di migliaia di cittadini, che hanno protestato nelle piazze di tutta Europa (Italia esclusa) lo scorso 11 febbraio, sull’onda delle manifestazioni precedentemente tenutesi in Polonia. Dove perfino all’interno del Parlamento alcuni deputati hanno indossato la celebre maschera di Guy Fawkes in solidarietà con il network Anonymous, fortemente contrario ad ACTA.
Dopo la diffusa espressione di dissenso, la Commissione ha deciso di volerci vedere più chiaro, chiedendo alla Corte di Giustizia europea un parere sulla conformità di ACTA al quadro normativo dell’Unione. Ma già un altro trattato si candida a bersaglio delle future proteste: il TPP (Trans-pacific Strategic Economic Partnership). L’estensione illimitata degli anni di tutela del copyright e del regime di responsabilità degli intermediari, prevista secondo alcune copie fuggite alla segretezza degli accordi negoziati, fa parlare infatti i critici di un vero e proprio erede di ACTA. La battaglia per il libero web, dunque, sembra destinata a continuare. A colpi di hacktivismo e, se l’iniziativa di Reddit dovesse trovare proseliti oltre i confini della community, controproposte di segno uguale e contrario.