La colpa è del regolamento delle primarie, che aiuta la dispersione del voto. Ma anche della classe dirigente locale, troppo autoreferenziale. Le due candidate? Litigiose e poco attente alle richieste dei cittadini. Per non parlare del maltempo, che ha tenuto tanti militanti lontani dalle urne. Il Partito democratico si interroga sulla figuraccia di Genova tra scuse, giustificazioni e tanta confusione. Una sola certezza: dalle primarie di coalizione del capoluogo ligure il partito è uscito sconfitto due volte. Il sindaco uscente Marta Vincenzi e la senatrice Roberta Pinotti si sono fermate sotto il 30 per cento. A correre per la poltrona di primo cittadino sarà Marco Doria, il candidato di Sel. Una storia già vista a Milano, Cagliari, Napoli e in Puglia.
La sconfitta di Genova sarà pure un episodio, come spiegano in molti. Ma tra gli esponenti Pd c’è imbarazzo. E se il segretario Pierluigi Bersani spiega serafico che «ora si lavora con entusiasmo e passione per vincere alle amministrative con il candidato del centrosinistra», è chiaro che la sua serenità non ha contagiato il partito. Tanti democrat solitamente disponibili stavolta preferiscono non commentare. Qualcuno è troppo impegnato in «urgentissime riunioni», qualcun altro giura di non conoscere i dettagli della vicenda. «Lascio ai genovesi ogni commento» taglia corto Giovanna Melandri, eletta alla Camera proprio all’ombra della Lanterna. La vittoria del candidato di Vendola ha scosso il partito. Con buona pace dei pochi inguaribili ottimisti: «Vediamola così – ammette un dirigente Pd – con Marco Doria alle comunali il centrosinistra vince di sicuro».
I dati sono effettivamente impietosi. A Genova l’esponente di Sel ha vinto con il 46 per cento dei voti. 11.499 preferenze. Quasi il doppio rispetto alle due candidate del Partito democratico. Il sindaco uscente Marta Vincenzi si è fermata a 6.800 voti, il 27,5 per cento. La senatrice Roberta Pinotti a 5.900, il 23,6 per cento. Abbastanza da spingere i due dirigenti del Pd locale – il segretario provinciale Victor Rasetto e il segretario regionale Lorenzo Basso – a rimettere il proprio mandato al partito. Una sconfitta evidente. Che non può essere bilanciata dai risultati positivi ottenuti dalle recenti competizioni elettorali (stamattina un comunicato ufficiale del partito ricordava con involontaria ironia che parallelamente alla disfatta genovese il Pd «ha sbaragliato i concorrenti» alle primarie sarde di Alghero, Selargius e Siliqua). Il dato più evidente delle primarie liguri è legato alla disaffezione degli elettori Pd. Nel 2007 si erano presentati ai seggi delle primarie in 33mila. Lo scorso fine settimana solo 25mila.
Tanti esponenti democrat – non tutti a dire il vero – provano a giustificare la débâcle. Ottomila genovesi non sono tornati a votare? Sul sito ufficiale del Pd si scopre che la colpa è anche del maltempo. Ma i più criticano il regolamento: il problema è il meccanismo delle primarie di coalizione. La presenza di più candidati del Pd finisce per aiutare gli avversari. «Un suicidio politico cui la direzione nazionale del partito deve porre rimedio» spiega il deputato Pd Dario Ginefra. «Quando si accetta che alla gara partecipino più candidati del Pd – commenta Bersani lasciando intendere la sua contrarietà – se ne devono accettare gli esiti». Quasi tutti dimenticano che questo regolamento è previsto dallo statuto del partito.
Qualcun altro dà la colpa ai dirigenti. Il partito doveva intervenire, schierarsi. Prendere una decisione chiara, scegliendo tra una delle due candidate. «Era chiaro – racconta Roberta Pinotti – che il rapporto tra il sindaco in carica e la città si era rotto. Invece di lasciare certe scelte al popolo, forse ci sarebbe dovuta essere una discussione all’interno del Pd». Una posizione a favore di questa o quella candidata. «Non sono contenta e speravo di vincere – ammette con responsabilità la Pinotti – Ma mi assumo tutte le responsabilità. La colpa di questa sconfitta è mia e non è di nessun altro». Eppure diversi esponenti del partito sono d’accordo con lei. E sono convinti che il Pd avrebbe dovuto sponsorizzare ufficialmente un candidato.
Troppi candidati, assenza di posizionamento. E se a Genova il Pd avesse presentato le candidature sbagliate? «Doria ha vinto bene, con quasi il 50 per cento dei voti – ragiona un democrat – chi ci dice che se si fosse candidata una sola delle nostre due avremmo vinto?». Peraltro, spiega un componente della segreteria del Pd, «sommando i voti delle nostre candidate si arriva a stento alla stessa percentuale». Per il senatore veltroniano Salvatore Vassallo, uno dei principali sostenitori delle primarie, «è chiaro che a Genova il problema non siano state le primarie». «Sul territorio – spiega a Linkiesta – il rapporto tra i nostri elettori e quelli di Sel è di 5 a 1. La nostra sconfitta non è dovuta alla presenza di più candidati del Pd». Anche una candidatura ufficiale, da sola, non garantisce la vittoria. «La forza di Doria, Pisapia e Zedda – continua Vassallo – non era quella di essere candidati unici di Sel. Ma di essere credibili nella loro capacità di interpretare le necessità dei cittadini. Basso profilo, lontani dalla politica di professione. Perché noi del Pd non riusciamo ad esprimere persone così?»
Candidature sbagliate. Il problema si ripresenta. Era già successo un anno fa a Milano e a Cagliari. A Napoli – in assenza di primarie – per sconfessare il candidato ufficiale del Pd Mario Morcone e scegliere Luigi De Magistris gli elettori democrat avevano dovuto aspettare il primo turno delle amministrative. La mente torna al 2005. Alle primarie di coalizione in Puglia, la prima volta che Nichi Vendola superò il candidato Pd Francesco Boccia nella corsa a presidente della Regione. Allora, come oggi a Genova, probabilmente alla base della sconfitta c’era un candidato sbagliato. «Quella fu effettivamente una sorpresa per noi – ricorda il senatore pugliese Nicola Latorre – Nessun avrebbe scommesso sul successo di Vendola. Si pensava che il tema delle alleanze fosse prioritario rispetto alla scelta del candidato. Ma la carica carismatica di Vendola fu capace di intercettare la domanda di cambiamento della Puglia di allora».
Adesso come allora, il tema della selezione dei candidati torna all’ordine del giorno. Qualcuno si lamenta che il Pd non sia in grado di attuare un «ricambio generazionale». Latorre non è d’accordo. Il problema è un altro: «Lo dico con grande rispetto di chi lavora ogni giorno sul territorio: oggi emerge una certa autoreferenzialità dei gruppi dirigenti locali. Sono troppo impegnati a mediare tra divisioni e scontri interni e rischiano di perdere il contatto con la realtà». «Non stupisce tanto che a Genova abbia vinto Doria. Sono i suoi numeri a stupire. I dirigenti locali dovevano avere il polso della situazione. Non potevano non cogliere un disagio così forte del nostro elettorato».
Dati elettorali alla mano, un’incapacità sempre più frequente. Non solo a Genova. «Il segnale è chiaro e va raccolto – conclude Latorre – A livello nazionale si deve avviare un processo di formazione e selezione di classi dirigenti locali sempre meno autoreferenziali. Questa vicenda sia di insegnamento a tutto il partito».