Il triste primato dell’Italia nel business sporco dei reperti

Il triste primato dell’Italia nel business sporco dei reperti

Al museo del Louvre un olio su tela, dipinto da Hubert Robert prima del 1758, rappresenta Alessandro Magno davanti alla tomba di Achille. Il Macedone in armi é rappresentato stante, mentre alcuni operai sono intenti a scavare una tomba costruita, di forma circolare, a cui è appena stato sollevato il coperchio, un episodio non infrequente nell’antichità classica. Non mancano le testimonianze sulla realizzazione di ricerche finalizzate al rinvenimento di materiali di pregio, dai nekrokorinthia, gli oggetti trovati ed immessi sul mercato dai romani che dopo il 146 a. C. si insediarono sul sito di Corinto, ai recipienti fittili scoperti a Capua al tempo di Cesare.

Un problema, quello dei beni di particolare rilevanza illecitamente sottratti, che ha continuato a sussistere attraverso i secoli e che ancora fa capolino. Un tema su cui i riflettori non si accendono quasi mai, offuscato dalle tante emergenze del Paese in difficoltà. Il sito Internet dei Carabinieri, che alle opere di particolare rilevanza, tra i “Beni culturali illecitamente sottratti” riporta, al momento, 5mila 330 oggetti. Come, non diversamente, si evince dal “Rapporto sulle archeomafie” redatto dai Carabinieri del Comando tutela patrimonio artistico. Considerando che solo nel 2009, secondo i dati del rapporto Ecomafia 2010, sono stati compiuti 882 furti di opere d’arte e trafugati 13mila 219 oggetti.

Per le relazioni dell’Ufficio delle Nazioni Unite di Vienna, il traffico illegale di opere d’arte è il quarto business del crimine mondiale dopo i traffici di droga, armi e denaro riciclato. Insomma gli interessi che ruotano intorno al commercio di opere d’arte sono tanti e sempre più di frequente il guadagno delle vendite non è esclusiva del tombarolo di turno, ma di associazioni criminali. L’esempio più eclatante è quello del 2009 quando la Direzione investigativa antimafia sequestrò all’italo-canadese Beniamino Zappia, in carcere dal 2007, oltre 345 dipinti di immenso valore, tra tele di Guttuso, De Chirico, Dalì, Sironi, Morandi, Campigli.

Nel libro L’impero della camorra, l’autore, Simone Di Meo, si legge che nel corridoio della villa dei boss Nuvoletta, appesi alla pareti, c’erano vari quadri della scuola pittorica napoletana. Ma vale la pena ricordare anche il caso della Natività di Caravaggio, rubata nel 1969 nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo ed esposto durante le riunioni della Cupola, almeno secondo quanto riferito dal pentito Totò Cancemi. E ancora nel gennaio 2010 è stato sventato un traffico internazionale di reperti archeologici, realizzato attraverso una rete criminale capace di muoversi tra l’Italia, la Spagna, la Francia, la Germania e il Lussemburgo. La refurtiva recuperata dai militari era composta di mille 248 reperti archeologici e centinaia di fossili, per un valore stimato in 4 milioni e 350 mila euro. Così corredi tombali protostorici, statue ed esemplari ceramografici greci, sarcofagi e mosaici romani, viaggiano dai tanti siti italiani in direzione di diversi Paesi europei, degli Stati Uniti.

Probabilmente il proliferare di questo import-export illegale, di cui l’Italia continua ad essere uno dei paesi più interessati, si deve anche ad un vulnus legislativo: mancano normative che tutelino il bene prevedendo pene severe per i trasgressori. Nel novembre dello scorso anno lo spagnolo El Mundo in un’inchiesta sulla questione, dall’inequivocabile titolo Italia, saccheggio del paradiso dell’arte, denunciava l’incapacità da parte delle autorità di contrastare in maniera efficace il fenomeno. Più di 3mila 500 musei e circa 2mila siti archeologici a rischio furti. Potenzialmente esposti a depredamenti di varia entità.

Come dimostrano, argomentando la tesi con una casistica tristemente assai ricca, anche alcuni libri-inchiesta pubblicati negli ultimi anni, come I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia di Fabio Isman e Vandali L’assalto alle bellezze d’Italia di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Fra le storie da raccontare c’è senz’altro quella di Giacomo Medici che, come si legge sul sito dei Carabinieri «è stato condannato, il 15 luglio 2009, anche in secondo grado, a otto anni di reclusione, in relazione ad un vasto traffico di reperti archeologici, provento da scavi clandestini effettuati in Italia e poi rivenduti in tutto il mondo a collezionisti e musei». Le indagini su Medici sono partite molti anni fa, addirittura nel 1995 e, sempre secondo i Carabineri, «consentirono di sequestrare, presso il Porto Franco di Ginevra, oltre tremila reperti e moltissimi documenti e fotografie polaroid».

La spiegazione di tutto questo é nel Codice dei Beni culturali varato dal governo Berlusconi e dal ministro Giuliano Urbani il 22 gennaio 2004. Codice che in realtà acquisiva il Decreto legislativo 29 ottobre 1999, impostato dal governo D’Alema. Strumento che non si pone in maniera decisa contro “i predoni dell’arte”, prevedendo pene forse troppo blande: multe risibili e una reclusione massima di tre anni. Da sottolineare è che la carcerazione non é prevista se non dopo la condanna definitiva. In pratica in galera per reati identificabili con il saccheggio del patrimonio artistico non ci va proprio nessuno. Per una “stortura” legislativa, per la mancata considerazione, sempre, delle aggravanti previste per gli altri tipo di furto.

Alla necessità di un cambiamento che prevedesse un inasprimento delle pene, si era decisamente orientato il ministro Galan. Il 20 settembre dello scorso anno aveva portato in Consiglio dei Ministri un disegno di legge per raddoppiare le pene da tre a sei anni e quindi consentire l’arresto, la custodia cautelare, l’allungamento dei tempi per la prescrizione e le intercettazioni. La caduta del governo ha cancellato quel tentativo.

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