La manifattura cerca spazio fra delocalizzazione e digitale

La manifattura cerca spazio fra delocalizzazione e digitale

Già qualche tempo fa abbiamo iniziato su Linkiesta un dibattito sulla importanza della Manifattura per la creazione di nuovi posti di lavoro. Ad aprirlo era stato un articolo di Andy Grove, fondatore di Intel, che indicava nella manifattura un fondamentale elemento di crescita dell’economia americana.

I l tema si è poi allargato con nuovi interventi, soprattutto dagli Stati Uniti con gli studi Erika Fuchs, (Carnegie Mellon University di Pittsburg) e di Willy Shih (Harvard Business School ). Erika Fuchs mostra come il trasferimento della manifattura verso paesi a basso costo del lavoro stia provocando non solo una fortissima riduzione della occupazione negli Stati Uniti, ma anche un sicuro impoverimento della capacità di innovazione del paese, che ha bisogno della ‘esperienza della fabbrica’ per alimentare e rendere concrete le idee nuovi prodotti. Willy Shih sostiene in modo analogo che la capacità di innovazione spesso svanisce se un paese perde il suo settore manifatturiero perché la conoscenza e le capacità tecniche necessarie a sviluppare nuove tecnologie, sono spesso strettamente collegate alle doti e alle esperienze del lavoro nella “fabbrica”.

Come esempio di questa tesi è stato portato il caso delle celle fotovoltaiche. Fino a dieci anni fa una sola una delle prime cinque società produttrici al mondo era cinese, (e non con le tecnologie più avanzate). Oggi ben quattro su cinque lo sono, e ai livelli tecnologici tra i più elevati.  Questo grazie ai rilevanti incentivi del governo alle fabbriche operanti nel settore ,e al conseguente flusso di innovazione generato dalle nuove esperienze produttive.

Implicitamente è stata messa sul banco degli imputati la Apple che produce praticamente tutti i suoi prodotti nelle fabbriche della Foxconn in Cina dove è arrivata ad impiegare 250mila addetti. Apple ha risposto che non si può certo dire che il flusso della sua innovazione si sia arrestato. E questo è vero, anche perché il maggior valore dei suoi prodotti sta nel design e nel software ed in uno straordinario modello di business collaborativo in rete. Il fatto che Apple , non intenda affatto abbandonare Foxconn, ora che il grande sforzo di “robotizzazione” delle sue fabbriche cinesi sta rendendo quasi irrilevante il tema del basso costo del lavoro, dimostra che ci possono essere altri motivi per de localizzare le fabbriche. Primi tra tutti il poter beneficiare di una “supply chain” ( ovvero la ‘catena’ degli acquisti dei componenti da montare nel prodotto finito) tra le più efficienti al mondo, e disporre della capacità di Foxconn di mobilitare, con minimo preavviso, grandi capacità produttive che forse non ha pari al mondo.

Caso Apple a parte la tesi che la manifattura è un fondamento importante sia per la occupazione che per l’innovazione sta facendo molta strada negli Stati Uniti. Ha spinto molto il governo che ha incentivato in vari modi il “rimpatrio delle fabbriche”. Caso esemplare è quello del settore auto, dove una crescita importante degli stimoli a investimenti in ‘retooling’(ammodernamento dei sistemi di macchine utensili ) sta portando anche ad un ritorno di mano d’opera addestrata in modo specifico, e a un interessantissimo flusso di innovazione di modelli e tecnologie.

Ora però, il problema della lotta alla disoccupazione viene discusso anche da un altro punti di vista, quello apparentemente antico della tecnologia che sostituisce il lavoratore nelle sue funzioni abituali. Fin dall’inizio della rivoluzione industriale la perdita di posti di lavoro sostituiti da macchine aveva procurato resistenze anche violente sfociate nel Luddismo. Ma si era sempre verificata, in tempi non troppo lunghi, la nascita di lavori nuovi che avevano più che compensato quelli precedentemente persi.

Oggi stiamo vedendo un fenomeno simile, con la rivoluzione digitale che sta sistematicamente, e con grande rapidità, facendo scomparire intere categorie di occupazione ( bancari, agenti di viaggio, disegnatori, contabili… E perfino categorie “molto istruite”, come i giovani avvocati impiegati nella ricerca di sentenze), sono sostituti da software dedicati, e solo pochi lavori nuovi vengono creati, in numero non assolutamente in grado di ridare un lavoro agli addetti divenuti inutili perché “digitalizzati”.
In un ‘fondo’ molto interessante sul New York Times, Tom Friedman mette in evidenza che la disoccupazione è più alta dove sono più bassi i livelli di “formazione”. Dal 13.8% di chi ha un livello inferiore alla high school, al 8,7% di chi ha superato la ‘high school’ ma non l’Università, al 4.1% di chi ha ottenuto almeno un “Bachelor’s degree”. Nota Friedman, che le tecnologie digitali tendono ad espandersi e a sostituire molto più rapidamente i lavori di chi ha un livello di formazione più basso. In termini tecnici questa non è una novità e, nell’articolo di Technology Review qui ripreso, questo appare chiaro. Ma quando un concetto viene dato in pasto al grande pubblico del New York Times da un “guru” come Tom Friedman, allora diventa uno “scoop” e attenzione pubblica esplode.

Il tema diventa non tanto la ovvia necessità di investire in “formazione”, come pure Friedman auspica, ma del come ricostruire un ruolo decoroso per i tanti che vorrebbero poter avere un impiego 9 to 5 (dalle nove alle cinque) senza “bisogno di una laurea”. In realtà Friedman concorda con Peter Diamond, economista del MIT, Nobel per l’Economia nel 2010, e con Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee del ‘Center for Digital Business’ della la Sloan School of Management del MIT.

«Un economista di impostazione classica commenterebbe che è in atto un grande assestamento, come conseguenza dell’avvento di nuove tecnologie sostitutive di certi tipi di lavoro, che proseguirà fino a che non verrà trovato un nuovo equilibrio, cioè un nuovo tipo di lavoro che le persone possano svolgere. In passato indubbiamente ci siamo già adattati a questo tipo di cambiamenti. Ma mentre i progressi nel campo dell’agricoltura si sono distribuiti nell’arco di un secolo e la distribuzione dell’energia elettrica e l’industrializzazione si sono diffuse nel corso di decenni, oggi» sostengono Brynjolfsson e McAfee, «l’efficienza e i vantaggi dell’automazione, resi possibili dalla tecnologia informatica, stanno avanzando troppo velocemente per consentire al mercato del lavoro di tenere il passo».

Abbiamo quindi sul tavolo due temi altrettanto importanti da affrontare, per trovare una soluzione alla disoccupazione: il richiamo della manifattura ‘emigrata’, l’offerta di attività sostitutive a chi ha visto un “software” prendere il suo lavoro. Resterebbe poi un terzo tema, quello della finanza che vive su se stessa e non per aiutare gli investimenti produttivi, (vedere il pezzo su Red Bank e high frequency trading) , ma su questo ritorneremo più avanti.  

*direttore dell’edizione italiana di Technology Review, la rivista Mit dedicata all’innovazione 

Il commento del professor Romano Prodi

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