Continua la protesta dei professionisti contro le minacciate liberalizzazioni. Minacciate, perché pare che dopo la manipolazione degli emendamenti resterà poco più di qualche buona intenzione. L’Organismo Unitario dell’Avvocatura, che a noi piace poco perché fatichiamo a comprendere come possa essere unitaria la rappresentanza di una professione che ha superato i 210mila iscritti all’albo, ha promosso una nuova astensione dalle udienze per il mese di marzo.
Ma non è questa la notizia: si sa che in Italia si soffre di scioperomania, perché gli scioperi sbagliati sono sempre quelli degli altri, mentre quelli della propria categoria sono sacrosanti, irrinunciabili. In una parola, abusata: costituzionali.
La notizia è che il pressing delle professioni ha ottenuto finalmente un risultato: i tirocinanti, detti anche praticanti, non avranno diritto ad un compenso se non dopo i primi sei mesi di tirocinio. Per carità: chi conosce il mondo dell’accesso alle professioni non sarà affatto meravigliato. Resta da dire che, per fortuna, la realtà del praticante che lavora a titolo onorario non è generalizzata. Ma è una delle tante facce del mondo delle professioni italiane e, fosse per noi, non proprio una faccia per la quale andar fieri. E diciamo questo non per facile istinto demagogico, che speriamo ci manchi del tutto, ma per una valutazione di efficienza e di utilità.
Crediamo, infatti, che se un professionista dovesse scegliere un praticante o un tirocinante dovendolo pagare adeguatamente sin dall’inizio, sarebbe tenuto ad operare una scelta oculata, perché sarebbe per lui un investimento. Ed avrebbero maggior possibilità di trovare una collaborazione retribuita i candidati con potenziali maggiori qualità.
Certo, l’obbligo di pagare il praticante sin dall’inizio probabilmente ridurrebbe, di molto e soprattutto a certi livelli, la domanda di lavoro da parte dei professionisti. Ma questo, visti i dati sul sovraffollamento delle professioni in Italia (e prendiamo, per maggior confidenza, per buoni i dati sull’avvocatura – ad esempio negli studi condotti dalla European Commission for the Efficiency of Justice) non sarebbe un effetto negativo, posto che la scarsità di domanda avrebbe il vantaggio di segnalare agli aspiranti che vi sono poche opportunità, consentendo loro di dedicare le loro fatiche ed i loro interessi curriculari verso altre ambizioni (la lingua tedesca, bontà sua, utilizza il termine Beruf, vocazione, per indicare la professione!). Si ridurrebbero le schiere dei veri praticanti fittizi, cioè di quelli che passano il loro tirocinio a svolgere prevalentemente le mansioni di una buona segretaria, senza un reale e significativo apprendimento.
Breve: molti praticanti sono, nei fatti, segretari a costo zero. Scelti per il lavoro da galoppini più che per le pretese capacità di ricerca e di elaborazione critica, profili che – almeno un tempo e prima della devitalizzazione messa in atto dal duo Berlinguer-Moratti – le Università italiane cercavano di stimolare.
Riconoscere loro il diritto di esser pagati non sarebbe stata una concessione buonista, ma sarebbe stato un interesse dell’intera professione, consentendo a questa di regolare, in maniera non dirigistica ma coerente coi principi di una funzionante economia di mercato, l’accesso non tanto agli albi, ma alla pratica che a questi è prodromica.
Se così stanno le cose, la lingua batte dove il dente duole: non si può insistere a voler contentare tutti gli interessati dalle pretese grandi riforme. Perché se si prosegue su questa china, non ci resterà altro che ricordare uno dei Ragionamenti di Pietro l’Aretino, in cui si narrava di come la Nanna, introdotta la sua figliola Pippa alla professione, le consigliasse di mantenere le proprie virtù chiedendo indicazioni ai suoi clienti.
Andrea Bitetto – avvocato e dottorato di Ricerca in Sistemi Giuridici Comparati ed Europei presso l’Università di Trento