Esattamente un anno fa, quando filtrò la notizia che uno tsunami aveva colpito le coste sud del Giappone, molti esperti nucleari occidentali minimizzarono. Nei primi giorni, almeno nel privato delle loro riunioni, alcuni arrivarono a dire che quell’incidente avrebbe finito con il rafforzare la fiducia nel nucleare a livello mondiale.
I sei impianti nucleari dell’impianto di Fukushima Daiichi erano intatti. Avevano resistito a un terremoto di livello nove della scala Richter, un evento catastrofico che aveva provocato un immenso tsunami che aveva spazzato decine di chilometri di costa, distrutto interi paesi, cancellato porti e strade, spazzato via interi paesaggi. Ma quei sei impianti erano in piedi, segno che le strutture avevano retto. L’industria nucleare giapponese, con i suoi 54 reattori in grado di garantire al paese un terzo dell’energia elettrica, stava dimostrando la prevista affidabilità.
Furono sufficienti 48 ore per capire che si trattava di un’illusione. L’incidente si trasformò in una catastrofe in grado non solo di mandare in soffitta (forse per sempre) i sogni di Rinascimento nucleare che si erano diffusi in Occidente, ma di creare una frattura senza precedenti tra classe dirigente e cittadini in Giappone. Bastano poche righe per ricordare la dinamica dell’incidente. Alle 14 e 46 minuti dell’11 settembre, quando un terremoto del nono grado della scala Richter scuote gli impianti di Fukushima, i reattori si spengono come previsto. Ma 41 minuti dopo la scossa, la grande ondata supera le barriere che circondano l’impianto, inonda tutti i generatori di energia elettrica, compresi quelli di emergenza, e li mette fuori uso. In assenza di elettricità, nelle ore e nei giorni successivi gli impianti di raffreddamento smettono di funzionare, i noccioli dei tre reattori si surriscaldano fino a fondersi producendo idrogeno che esplode a contatto con l’aria. A quel punto lo iodio 131 e il cesio 137 cominciano a diffondersi all’esterno.
Nella devastazione che ne segue, il danno più grave nei confronti dell’opinione pubblica è provocato dalle bugie, dalle cialtronerie, dall’improvvisazione della classe dirigente. Per mesi i rappresentati del governo e dell’industria mentono all’opinione pubblica. Prima sottovalutano l’incidente, diffondendo notizie tranquillizzanti mentre l’inquinamento già comincia a diffondersi.
Poi mostrano una totale impreparazione di fronte all’emergenza.
La Tepco, l’industria che gestisce gli impianti, ritarda gli interventi necessari a raffreddare i reattori per cercare di salvare i reattori, e quindi i propri investimenti. Solo alcuni giorni filtra la notizia che il governo era a un passo dall’ordinare l’evacuazione dell’area di Tokyo, 35 milioni di persone. Nessuno allora lo immaginava. Con il passare delle settimane diventa lampante che per evitare i disastro sarebbe stato sufficiente costruire i generatori di emergenza su una collina alta qualche decina di metri, per
evitare che fossero sommersi dall’onda dello tsunami. Alcuni tecnici avevano previsto il rischio e chiesta la modifica. Quagli interventi non furono realizzati per risparmiare.
Improvvisamente la classe dirigente appare inattendibile, paralizzata da una rete di interessi così ampia ed estesa che ignora l’esistenza stessa del bene pubblico. Di fronte alla vastità del rischio e alla inadeguatezza della risposta, nel paese crolla la fiducia verso il governo e più in generale verso il «sistema Giappone», quella rete di rapporti che lega l’amministrazione pubblica alla grande industria, un binomio che è sempre stato il motore del paese.
La fiducia verso il governo Noda è oggi al 28%: l’Economist commenta che i giapponesi manifestano ormai un sentimento verso le proprie istituzioni politiche che ricorda quella dei russi dell’era Putin. Ma per il Giappone si tratta di un cambiamento nuovo che fa scattare più di un campanello d’allarme. I sociologi parlano di «perdita di fede».
Un esempio? Le società elettriche hanno spento gli impianti nucleari per sottoporli a stress e verificarne la sicurezza ma non riescono più a farli ripartire. Assicurano che non esiste alcun pericolo, ma la gente non si fida e le comunità locali si ribellano. 52 reattori su 54 sono spenti e l’opinione pubblica ne impedisce la riaccensione. Gli ultimi due dovranno essere disattivati nei prossimi mesi e non è chiaro quando potranno essere riaccesi. Le comunità locali, che per decenni hanno favorito l’installazione di centrali nucleari perché in cambio ottenevano investimenti sul territorio e migliaia di posti di lavoro, ora hanno cambiato idea. Quegli impianti non li vogliono più. Non hanno più fiducia nel governo e nell’industria. Troppe menzogne, troppi interessi economici oscuri, troppa ncompetenza. Takeo Kikkawa, un economista della università Hitotsubashi, a Tokyo, ha detto al New York Times che Fukushima ha «scosso l’identità postbellica del Giappone».
La chiusura degli impianti nucleari non è un problema marginale per il Giappone. Significa più consumo di gas comprato all’estero e aumento dei costi dell’energia elettrica. Per la prima volta da trent’anni le importazioni superano le esportazioni. La gente vede aumentare i prezzi, tiene le luci spente più a lungo, rinuncia all’aria condizionata. L’estate scorsa c’erano ancora 19 impianti in funzione. La prossima estate saranno probabilmente tutti spenti e si rischia il black out. I cittadini lo sanno ma chiedono che i reattori restino disattivati. Il governo non osa forzature, visto il clima che si respira. Sa che il rapporto di fiducia si è rotto.
È stato grazie a questo antico patto tra governo, grandi imprese e cittadini se il Giappone è risorto dalla guerra e ha costruito il miracolo industriale e tecnologico che conosciamo. Solo se esiste un rapporto fideistico con gli amministratori si possono costruire 54 reattori nucleari nel paese più sismico del mondo, oltre una ferrovia che supera i trecento chilometri all’ora e attraversa tutto il paese (fin dagli anni Ottanta), aeroporti costruiti su isole alleggianti e molte altre grandi opere pubbliche che hanno cambiato il volto al paese. Questo ragionamento non vale solo per il Giappone, ma può essere declinato sotto tutte le latitudini.
Nelle società complesse solo un solido rapporto di fiducia con il governo consente di realizzare progetti di largo respiro che comportano profonde trasformazioni del territorio o opere di qualche rischio. Ma la rottura di questo patto, per il Giappone, ha implicazioni più profonde che altrove. I giapponesi sanno di vivere in uno dei territori più ostili del Pianeta. Da decenni si preparano al Big One, il grande evento catastrofico, e considerano l’evento dell’11 marzo 2011 un’avvisaglia.
Se il terremoto di un anno fa avesse avuto l’epicentro un po’ più a sud, avrebbe provocato 200 mila morti, invece di 20 mila. Se si fosse scatenato davanti alla baia di Tokyo, il numero delle vittime sarebbe stato incalcolabile. Improvvisamente si fa strada la consapevolezza che il Big One può essere ancora più devastante del previsto. Che fare per affrontarlo con l’esperienza dell’11 marzo 2011 alle spalle?
Nei giorni scorsi il Financial Times ha raccontato nel dettaglio i progetti di cui si discute nel paese per creare un’infrastruttura adeguata non per «prevenire il disastro» ma per limitare i danni.
Nel paese si moltiplicano i progetti per trasferire le cittadine nelle zone collinari. Molte scuole cercano fondi per sopraelevare gli edifici. Qua e là nelle città vicine alla costa si progettano strutture metalliche sopraelevate per offrire rifugio. Osaka, Nagoya e Fukuoka chiedono di diventare capitali di riserva nel caso che Tokyo venga distrutta. L’ex primo minisytro Shinzo Abe sponsorizza la costruzione a Ozaka di una nuova città per la gestione dell’emergenza nazionale.
L’opinione pubblica reagisce con diffidenza di fronte a progetti che valgono miliardi di dollari. Preferisce che i fondi vengano affidati a gruppi non profit e non siano gestiti dalle burocrazie in combutta con l’industria. La fiducia nelle istituzioni è crollata. Per ricostruirla ci vorrà un bel po’. Forse il dopo Fukushima in Giappone può insegnare qualcosa anche a noi.