Aldo Moro, 34 anni fa veniva rapito e “diventava statista”

Aldo Moro, 34 anni fa veniva rapito e “diventava statista”

Trentaquattro anni fa fu rapito Aldo Moro. Le parole più lucide e coraggiose su di lui e quella pagina ancora grandemente oscura della nostra storia, le scrisse poco dopo Leonardo Sciascia. Qui vi riproponiamo un brano dell’Affaire Moro, dedicato dal grande scrittore al presidente della Democrazia Cristiana e all’Italia di allora.

Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c’è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità – e quindi spiegazione – nel tutto; e il tutto nelle parti.

Uno di questi piccoli avvenimenti è nell’Affaire Moro l’espressione «il grande statista» che ad un certo punto sostituisce il nome Moro o espressioni come «il presidente della Democrazia Cristiana», «il leader», «il grande leader», «il leader prestigioso»… Nei giornali del 18 marzo ci imbattiamo per la prima volta nella definizione di «statista» elargita a Moro: ma nella dichiarazione – è da presumere tradotta – del segretario generale dell’ONU («uno dei più eminenti statisti d’Italia»). La parola si riaffaccia sui giornali, ma sporadicamente, dopo il primo messaggio di Moro: la lettera al ministro degli Interni Cossiga. Il 18 aprile la si coglie, per la prima volta accompagnata dall’aggettivo «grande», nel messaggio del presidente Carter. Non sappiamo come suonasse nel testo originale; comunque l’espressione era quella che ci voleva, quella che si cercava, affinché ogni riferimento a Moro contenesse – sottaciuto ma effettuale – un confronto tra quel che era stato e quel che più non era. Era stato un «grande statista»; e ora altro non era che un uomo (parole sue, nella prima lettera dalla «prigione del popolo»: e saranno, fin oltre la conclusione della vicenda, le più citate) «sotto un dominio pieno ed incontrollato». «Statista» è propriamente l’uomo dello Stato: colui che allo Stato, alla struttura che lo costituisce, alle leggi che lo regolano, devolve intelligente fedeltà, meditazione, studio; e «grande statista», ovviamente, colui che queste facoltà e attività devolve al massimo grado. E come era possibile ritrovare l’immagine del «grande statista» nei messaggi che Moro mandava dalla «prigione del popolo»? Le Brigate rosse lo avevano distrutto: al posto del «grande statista» c’era un uomo che forse subiva sevizie fisiche, forse veniva drogato e sicuramente viveva nell’incubo di una costante minaccia di morte in cui smarriva quel «senso dello Stato» che altamente aveva dimostrato di avere in più che trent’anni di attività politica.

Grande e spiccata menzogna, tra le tante in quei giorni rigogliose. Né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il «senso dello Stato». L’idea dello Stato quale alcuni esponenti del Partito Comunista Italiano avevano cominciato ricattatoriamente ad agitare nel maggio dell’anno prima – idea che sembrava discendere e forse, per ragioni che qui ed ora non è il caso di esaminare, discendeva più dal lato destro che dal lato sinistro di Hegel – probabilmente aveva attraversato la mente di Aldo Moro soltanto negli anni giovanili, nell’agguerrirsi a quei ludi culturali che il regime fascista organizzava (i «littoriali»: e «littori» erano proclamati coloro che li vincevano): ma senza lasciar traccia nei suoi pensieri – o nel suo pensiero, se si vuole per lui rivendicare o ammettere una concezione ben definita ed articolata del fatto politico e del far politica. E figuriamoci nelle menti sicuramente meno ammobiliate – direbbe Savinio – di pensiero, e probabilmente di pensieri, di una gran parte di coloro cui Moro era guida ed esempio. E del resto il richiamo e la congenialità per cui almeno un terzo dell’elettorato italiano si riconosceva e si riconosce nel partito della Democrazia Cristiana appunto risiedono nell’assenza, in questo partito, di un’idea dello Stato: assenza rassicurante, e si potrebbe anche dire energetica.

In effetti, la polemica mossa l’anno avanti da alcuni esponenti del Partito Comunista Italiano contro chi mostrava di non amare svisceratamente lo Stato – lo Stato italiano così com’era — fece da ouverture a quel melodramma di amore allo Stato che sulla scena italiana grandiosamente si recitò dal 16 marzo al 9 maggio del 1978. E vittime di questa grandiosa messa in scena – come schiacciati dalle massicce quinte, dai massicci fondali – sembravano essere coloro che non nutrivano grande amore per lo Stato o per lo Stato italiano così com’era; ma la vera vittima ne era Aldo Moro.
Moro non era stato, fino al 16 marzo, un «grande statista». Era stato, e continuò ad esserlo anche nella «prigione del popolo», un grande politicante: vigile, accorto, calcolatore; apparentemente duttile ma effettualmente irremovibile; paziente ma della pazienza che si accompagna alla tenacia; e con una visione delle forze, e cioè delle debolezze, che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che uomo politico abbia avuto. E proprio in ciò stava la sua peculiarità: nel conoscere le debolezze e nell’avere adottato una strategia che le alimentasse dando al tempo stesso, a chi quelle debolezze portava, l’illusione che si fossero mutate in forza. E in questa sua strategia convergevano due esperienze, ataviche e personali: il cattolicesimo italiano e quella versione, nella più cruda e feroce quotidianità, del cattolicesimo italiano che è la vita sociale (cioè asociale) del meridione d’Italia. Strategia negli effetti paragonabile a quella di Kutuzov di fronte a Napoleone. E più volte mi è avvenuto, quando Moro era in fortuna, di paragonarlo a Kutuzov così come Tolstoj lo descrive e muove in Guerra e pace. E si pensi al capitolo XV della prima parte: al principe Andrea che rivede Kutuzov immutato nella «espressione di stanchezza della faccia e della figura»; a Kutuzov che con aria stanca e ironica ascolta quel Denisov, che ha un piano per tagliare i rifornimenti a Napoleone e salvare la patria, e poi lo interrompe chiedendogli se è parente dell’intendente generale Denisov; a Kutuzov che «conosceva qualcosa d’altro, che doveva decidere le sorti della guerra» — qualcosa d’altro che non stava nei piani più o meno intelligenti, ma nella geografia e nel modo di essere del popolo russo.

A vederlo sullo schermo della televisione, Moro sembrava preda della più antica stanchezza, della più profonda noia. Soltanto a tratti, tra occhi e labbra, si intravedeva un lampeggiare d’ironia o di disprezzo: ma subito appannato da quella stanchezza, da quella noia. Ma si aveva il senso che conoscesse «qualcosa d’altro»: il segreto italiano e cattolico di disperdere il nuovo nel vecchio, di usare ogni nuovo strumento per servire regole antiche e, principalmente, di una conoscenza tutta in negativo, in negatività, della natura umana. Il che gli era al tempo stesso afflizione ed arma. Arma usata con dolore: visibilmente. Ma usata. Era, come dice Pasolini, «il meno implicato di tutti»: ma proprio l’essere il meno implicato gli dava, su tutti nella Democrazia Cristiana, l’incontrastabile e anzi alleviante autorità di parlare in nome di tutti: potere e insieme sacrificio. E fuori della Democrazia Cristiana, di fronte agli altri partiti e all’Italia intera, questa situazione funzionava nel senso della credibilità, della fiducia; e direi pateticamente. Se un’idea ebbe Moro che somigliasse all’idea dello Stato, quest’idea stava come murata dentro la Democrazia Cristiana, dentro la medievale città – che sembrava aperta e indifesa, ma al momento del pericolo si rivelava munitissima, vigilata e sbarrata della Democrazia Cristiana

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