La caduta di Bo Xilai, il potente segretario – e astro nascente – del Partito Comunista Cinese nella megalopoli di Chongqing, ha aperto uno squarcio nell’immagine del Partito, e fatto discutere gli utenti dell’equivalente cinese di Twitter, Sina Weibo. Gli addetti alla censura sui social media hanno faticato a contenere le reazioni dei cittadini digitali, al punto che a pochi giorni di distanza dallo strappo con Bo la piattaforma di microblogging ha visto il moltiplicarsi di voci incontrollate su una possibile escalation della crisi, portando addirittura ad annunci di un colpo di Stato, con tanto di carri armati pronti a entrare in azione a Pechino.
Il regime, che equipara le indiscrezioni su Weibo a reati, ha deciso di rispondere a una situazione straordinaria con un’azione straordinaria: costringere i gestori del servizio – e del rivale Tencent QQ – a impedire qualunque commento per tre giorni. Weibo e QQ sono molto simili a Twitter: 140 caratteri, possibilità di segnalare argomenti di discussione tramite un cancelletto, menzionare altri utenti usando la chiocciola e ripetere tweet altrui. La differenza è che ogni “cinguettio” può essere commentato, un po’ come per i post su Facebook. Di norma. Ma non in questo momento di particolare tensione politica che, secondo gli osservatori, non raggiunge livelli di ebollizione simili dal 1989, da Tienanmen.
Le aziende che producono i due servizi di microblogging – nati nel 2009 per sostituire i tradizionali Twitter e Facebook, da allora al bando – hanno annunciato con un comunicato identico sui loro siti che gii utenti potranno sì pubblicare i loro contenuti, ma non commentare quelli altrui perché «tra i commenti su Weibo ci sono state troppe informazioni illegali e dannose». Il blocco, che durerà fino alle 8 del mattino di martedì, risponde all’esigenza di consentire «una ripulita centralizzata». Cioè da parte dei controllori governativi della Rete.
Un’immagine del sito di microblogging Sina Weibo, simile a Twitter
I quali, del resto, non hanno fatto mistero delle loro intenzioni. I media controllati dallo Stato hanno infatti dichiarato a reti unificate che i servizi di microblogging «sono stati puniti per aver consentito la diffusione dei rumor». Ma le autorità hanno anche annunciato di aver chiuso 16 siti e arrestato 6 persone. Sono stati «ammoniti ed educati», ha detto la polizia di Pechino, aggiungendo che «i colpevoli hanno mostrato intenzione di pentirsi». In un paese in cui un tweet fuori posto può costare due anni nei «campi di rieducazione», e in cui le confessioni possono essere estorte senza alcun riguardo per la tutela dei diritti umani di chi confessa, niente di sorprendente.
Nemmeno i commentatori, pur di fronte a un giro di vite senza precedenti per il web 2.0 cinese, si stupiscono. «Il governo teme che l’informazione possa scatenare una mobilitazione», ha affermato il docente di giornalismo alla Sun Yat–Sen University di Guangzhou, Zhang Zhi An. «E che i cittadini possano preoccuparsi per la stabilità sociale». Qualcosa di simile a una “primavera cinese”, insomma, che al momento non sembra all’ordine del giorno. Perché se è vero che i social media hanno consentito un livello di apertura e pubblicità al dibattito politico senza precedenti, è altrettanto vero che – almeno fino allo scoppio della crisi interna al Partito – la grandissima parte dell’utenza di Weibo è molto più interessata allo svago a buon mercato.
Per i temerari, poi, c’è tutto l’armamentario della censura online del regime: dal filtro della Grande Muraglia Elettronica ai 40 mila microblog che aiutano la polizia della Rete inondando i critici di propaganda filo-governativa; dalla rimozione manuale dei tweet più influenti – e degli account di chi li ha scritti – alle aziende, tra cui Sina e Tencent, che garantiscono al governo la totale sorveglianza digitale dei propri iscritti. Che, a partire dal 16 marzo, devono inoltre fornire su Weibo i loro dati reali, per accedere al servizio. Finora è un flop: hanno aderito poco più di 19 milioni di utenti sui 300 milioni totali.
Ma una cosa è certa: il clima si sta surriscaldando e il termometro sono i social media. E se la politica prende la scena anche online (Bo Xilai – nonostante filtri e blocchi – è stato tra gli argomenti più discussi su Weibo per ore), non è più sufficiente la censura “intelligente” e misurata vista all’opera in questi tre anni. Ecco scattare il blocco dei commenti. Difficile che basti a sopprimere le indiscrezioni, le voci e la creatività della sempre più vitale e diversificata comunità online cinese – né, tanto meno, le divisioni in seno al partito per la successione al potere. Il rischio, per il regime, è che la severità gli si ritorca contro: e produca la politicizzazione della massa di utenti che vorrebbe solo poter commentare innocue foto di gattini postate dagli amici su Weibo.