A un anno dall’inizio della Rivoluzione, in Siria i morti si contano a migliaia. Ma se le stragi si susseguono con cadenza quasi quotidiana non è soltanto una catastrofe umanitaria. È anche difficile, paradossalmente, mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, che rischia di assuefarsi alle violenze. Il problema ha una controparte tecnologica. E si rispecchia nell’algoritmo con cui Twitter seleziona quali argomenti debbano finire tra quelli più discussi al mondo e su base locale. Sono i cosiddetti “trending topic”, e alcuni attivisti siriani stanno conducendo da tempo una silenziosa battaglia tramite i social media per coordinare gli sforzi necessari a portare il racconto degli orrori di Assad tra i temi caldi sul servizio di microblogging, e dunque – questo l’assunto – all’attenzione del pubblico. Come grazie alla pagina Facebook “Twitter users for Syria”.
Di venerdì scorso l’operazione più recente. «Aggiungete #UnitedAgainstAssad (uniti contro Assad, ndr) a tutti i vostri tweet!», scrive l’amministratore della pagina in serata. La risposta dei 1.600 iscritti deve essere stata consistente, dato che venti minuti più tardi si legge: «Congratulazioni, #UnitedAgainstAssad è tra i “trending topic”!». Ancora un’ora e vi si aggiungono #1YearAgo e #SyriaRemembers (“un anno fa” e “la Siria ricorda”). L’operazione si ripete, cambiando hashtag, ogni venerdì tra le 15 e le 17 ora locale.
Ma per qualcuno è tempo di fare un salto di qualità: chiedere a Twitter di cambiare le regole stesse del gioco per favorire la dissidenza ad Assad. Come? Garantendo che almeno uno degli argomenti più discussi a livello mondiale riguardi, ogni giorno, la Siria. L’idea è venuta all’attivista Bevin Kurian, che gestisce l’account @SyriaChildren. Nome con cui ha deciso di firmare una lettera aperta «ai creatori, agli impiegati e ai rappresentanti di Twitter». «Crediamo che le storie che giungono dalla Siria meritino di essere sottolineate e menzionate almeno una volta ogni 24 ore», si legge, «per destare l’attenzione e la consapevolezza internazionale sulla rivolta e contribuire al raggiungimento di una soluzione immediata a una crisi apparentemente “abbandonata”».
Il tentativo è convincere Jack Dorsey, fondatore di Twitter, e soci a fare un’eccezione alla norma secondo la quale a finire tra i “trending topic” sono gli argomenti «immediatamente popolari», quelli cioè che hanno un’eruzione di interesse, «piuttosto che argomenti che sono stati popolari per un po’ su base quotidiana». Ma se i massacri avvengono ogni giorno, il risultato è che l’algoritmo li esclude, prosegue la lettera. Un problema cui si aggiunge il fatto che il «blackout dei media» nel Paese impedisce di generare un volume consistente di “cinguettii”, e di conseguenza non è nemmeno possibile accedere a una lista di argomenti più discussi nella sola Siria. Dato che Twitter ha giocato un ruolo importante, si legge ancora, nelle rivolte in Moldova, Iran, Tunisia ed Egitto, ciò significa limitare gli attivisti nell’uso di un importante strumento di informazione, pressione e coordinamento.
Del resto a convincersi delle potenzialità del mezzo è stato lo stesso Assad. Che ha smesso di impedirne l’accesso a febbraio scorso solo per farne una fonte di identificazione dei dissidenti, già bersagliati dall’occhio elettronico dei software di sorveglianza digitale provenienti dall’Occidente e da pagine web cercano di ottenere i loro dati celandosi dietro un’apparenza innocua. Per esempio, è notizia degli scorsi giorni, una replica in tutto e per tutto simile a YouTube. Non solo. Anche gli Assad hanno scritto le loro personalissime richieste a Twitter. Come si è appreso grazie alle oltre tremila mail ottenute e pubblicate dal Guardian, infatti, al dittatore non andavano affatto a genio i tanti profili satirici che ne bersagliavano le gesta a colpi di 140 caratteri. E così ha incaricato l’assistente della moglie Asma, Fares Kallas, di chiedere ripetutamente ai gestori di rimuonverne ben 11. Risultato ottenuto, dato che è la stessa Asma a scrivere, l’8 gennaio 2012, al marito Bashar: «Fares ha chiuso tutto gli account Twitter!»
Per ora l’appello di Kurian è invece andato a vuoto, nonostante i ripetuti appelli diffusi anche tramite @SyriaChildren. Difficile tuttavia che @Jack, @Biz e @Ev (Jack Dorsey, Biz Stone ed Evan Williams), cui l’attivista si rivolge, lo accolgano. Nonostante secondo Kurian non equivalga a «una richiesta di politicizzare Twitter», accogliere e fare proprie le istanze – per quanto nobili e giuste – di un gruppo di attivisti avrebbe la conseguenza di far percepire al regime che il servizio di microblogging non è un mezzo di comunicazione, ma uno strumento di propaganda nelle mani dell’opposizione. E questo potrebbe comportare una stretta censoria e repressiva perfino più dura. Qualcosa di simile, infatti, è avvenuto in Iran nel 2009, quando un alto funzionario del dipartimento di Stato Usa chiese a Twitter di cambiare la data di manutenzione del sito per non ostacolare le proteste nel Paese. All’epoca Twitter accettò, e la risposta fu la criminalizzazione dei social network da parte del regime iraniano, attualmente uno dei più severi nella censura online al mondo. Senza contare che è tutto da dimostrare il legame tra un “trending topic”, anche a livello globale, e un reale risultato in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica o di cambiamento sociale.