Ho fatto tutto il possibile per evitare di dare un giudizio su questa riforma del mercato del lavoro ma, vistala, non posso esimermi dall’infilare, buon ultimo, il mio dito nella piaga. Che è anzitutto politica e segna la sconfitta delle tenui speranze, da alcuni albergate, che il secondo governo “tecnico” della storia repubblicana potesse introdurre quei cambiamenti che gli altri governi non hanno saputo e voluto adottare e la cui mancanza ha condotto il paese nei frangenti in cui si trova. I quali frangenti, spread o non spread, non sono particolarmente migliori di quelli di un anno fa. Il governo Monti – con l’estate che s’avvicina mentre il tenue assegno in bianco firmatogli dall’opinione pubblica si scolorisce – ha tre mesi a disposizione per batter un colpo e convincerci che non ci troviamo di fronte ad un nuovo partito della conservazione sotto mentite spoglie tecniche. Passato giugno senza svolte decisive correremo il rischio di un’altra torrida estate con tassi che ballano ed imposte che crescono. Lascio ad altri le previsioni e ricordo i fatti: fatta eccezione per la, relativamente minore, riforma pensionistica questo governo sino ad ora ha solo aumentato l’imposizione fiscale. Il resto è tanto fumo con poco arrosto ed i richiami al Gattopardo, che qualche mese fa eravamo in pochi antipatici a fare, stanno diventando luogo comune.
Non voglio entrare negli aspetti più tecnici della riforma sia perché, dopo una settimana, quasi tutto è stato oramai scritto, sia perché in quale maniera verrà “riformato” il mercato del lavoro italiano lo sapremo solo fra qualche mese, al termine dell’iter parlamentare. Consapevole del fatto che questo potrebbe alterare completamente il contenuto del disegno di legge, Guido Tabellini ha suggerito su Il Sole 24 ore di ieri una modifica che, a suo avviso, potrebbe attuare da “salvacondotto” per preservarne la sostanza. In cosa consiste, secondo Tabellini, la sostanza ed in cosa il salvancondotto? La sostanza sta nella riforma del 18 ed il salvacondotto consiste nell’applicazione del 18 riformato solo ai nuovi assunti. In altre parole: i protetti rimangono tali, intoccatti al 100%, mentre il “nuovo mondo” entra in campo lentamente, anno dopo anno, attraverso le nuove assunzioni. Vi sono due aspetti rivelatori nel ragionamento di Tabellini:
- la credenza, erronea a mio avviso, che la dualità del mercato del lavoro italiano, la sua rigidità e la sua incapacità di creare occupazione dipendano anzitutto dal 18;
- il riconoscimento che il governo Monti ha perso qualsiasi capacità di toccare i privilegi delle categorie protette, se mai ce l’ha avuta tale capacità. Iniziamo dalla seconda osservazione, che è quella politicamente più rilevante.
Ho sostenuto svariate volte che l’unico approccio possibile alla crisi italiana è quello del “big bang”, ossia di una sequenza di riforme collegate fra di loro che tocchino simultaneamente un grande numero di privilegi e posizioni di rendita. Nel caso del mercato del lavoro questo vuol dire che, se si vogliono ridurre i privilegi del lavoro dipendente “protetto”, occorre simultaneamente toccare quelli delle professioni “liberali”, del commercio e del pubblico impiego. Oltre ovviamente a quelle, simboliche ma enormi e proprio per questo cruciali, della dirigenza pubblica e dei politici. O si riducono d’un botto tutti i monopoli o, fatta un’eccezione, il gioco del domino richiede che le eccezioni si facciano per tutti. Come sta infatti accadendo. Se questo governo vuole cambiare anche solo d’un po’ il paese sarebbe opportuno che facesse un passo indietro per uscire dal cerchio del domino in cui si è lasciato infilare, attaccando la questione da un altro lato. Ma su questo ci ritorniamo in un’altra occasione.
Veniamo alla seconda questione: il 18 è davvero il primum movens? Come andiamo spiegando da tempo, in svariati, non lo è. Avevo promesso al direttore che avrei argomentato perché ridurre la spesa pubblica è dieci volte più rilevante che cambiare il 18 e lo farò la prossima settimana: siccome non intendono tagliarla non c’è fretta alcuna. Oggi insisto sulle riforme del mercato del lavoro che sono più importanti del 18 ed attorno alle quali tutti tacciono, o quasi. Anzitutto il sistema di contrattazione nazionale, provinciale ed aziendale: esso ha un impatto enormemente maggiore su flussi, produttività e flessibilità salariale. Se ne è reso conto persino Rajoy che sta qui, non nel 18, la chiave del mercato del lavoro dipendente; noi, apparentemente, no. Non si è toccato per nulla il pubblico impiego, ossia il 30% più rigido e protetto del lavoro dipendente, il meno produttivo, il più costoso. Ci si è inventati un nuovo sistema di assicurazione contro la disoccupazione senza preoccuparsi di rifare da cima a capo il collocamento. Il collocamento, se ci pensate, è quella cosa che dovrebbe definire questo mercato come quel posto dove domanda ed offerta di lavoro si cercano e si trovano. Ignorato completamente. Ci si è inventati un nuovo schema di prepensionamento, facendo uscire dalla finestra le pensioni che erano state fatte parzialmente rientrare qualche settimana prima dalla porta. Ci si è inventati un contratto d’apprendistato di 3 anni quando il resto dei paesi Ocse non vanno al di sopra dei 6 mesi e, in generale, si è completamente rinunciato a ridurre la dualità che massacra il lavoro giovanile, la sua produttività e la sua capacità reddituale. Basta? Io credo che basti ed avanzi, altro che 18!
Alla luce di questi fatti, tutti ovvi, il realistico suggerimento da cui ho preso spunto certifica la sconfitta totale dell’ipotesi di riforma e riconosce che, se nel frattempo riuscissimo a caricare tutto il drammatico peso dei privilegi in essere sulle spalle delle nuove generazioni, fra circa 30 anni forse avremmo un decente mercato del lavoro dipendente privato. Quando gli attuali protetti si saranno tutti tranquillamente pensionati e, aggiungo io, una buona fetta delle aziende più produttive oggi presenti nel paese avrà fatto i bagagli per andarsene ad operare all’estero. Legislare per le generazioni future al fine di raccogliere il consenso delle presenti fu la strategia adottata nel 1995 con riforma delle pensioni, e gli effetti si son visti. Sbagliando, sembra, le elite italiane non imparano mai.