Firenze ha provviste di passato troppo abbondanti per aver voglia di impegnarsi con presente e futuro. «Questa è una città con un patrimonio storico pesante: vale l’approccio del ragioniere di provincia che coltiva il suo orticello, o bisognerebbe portare un po’ di aria nuova?», si è chiesto l’ex assessore alla Cultura Giuliano da Empoli, al momento dell’addio alla giunta di Matteo Renzi, nel gennaio scorso. Ora Giuliano da Empoli invia agli amici (e anche al sindaco) foto dei suoi piedi a fondo sedia a sdraio davanti a viste oceaniche. Si è preso un periodo sabbatico e riflette alle Hawaii sul futuro, mentre Renzi si gode l’interim della Cultura proprio nei giorni di maggiore esposizione mediatica per i primi risultati della ricerca del tesoro perduto su cui ha caparbiamente insistito: l’affresco mancante di Leonardo da Vinci, La battaglia di Anghiari.
L’ex assessore alla Cultura ha chiuso la sua esperienza politica con una frase di forte – e amara – sintesi: «Firenze è la più piccola città globale del mondo: una città di 370mila abitanti attraversata da flussi globali, che però ha una governance di una medio-piccola città di provincia». Renzi è stato definito l’Obama italiano dal Time; è stato lodato dal New York Times che ha inserito Firenze (anche grazie alle politiche del suo «youthful mayor») al sedicesimo posto nella classifica delle 45 città da visitare nel 2012; è stato intervistato a inizio marzo dal Financial Times che ne ha parlato come della rising star (l’«astro nascente») della politica italiana; è sulle prime pagine dei giornali e nei servizi tv di mezzo mondo per la caparbia ricerca dell’affresco vinciano, per il quale si era assicurato una ricca sponsorizzazione – e la successiva copertura mediatica – del National Geographic. E anche in Italia, pochi mesi fa, ha monopolizzato le attenzioni della stampa con il Big bang, il grande evento alla stazione Leopolda di contestazione interna al Pd e di informale auto-investitura alla leadership del partito e del Paese. Ma quanto c’è in tutto questo di abile marketing e quanto di sostanza? E quanto sta davvero cambiando la sua Firenze il giovane sindaco eletto nel 2009? Quanto la sta riportando al centro della politica italiana, dal sonno periferico nel quale era caduta negli ultimi decenni?
Mario Curìa è presidente e amministratore delegato di Mandragora, la casa editrice d’arte fiorentina dai raffinati cataloghi che gestisce i bookshop nei principali monumenti del capoluogo toscano, tra cui quello centralissimo nella cripta del Duomo. Nato in Calabria, sulla Sila, è a Firenze dal 1973, dove si trasferì per studiare all’Università. Dice di provare per la città «un sentimento ambivalente, di amore pazzesco e di odio profondo». Ha in ufficio la bandiera a stelle e strisce degli Stati Uniti e si definisce «più tedesco dei tedeschi». È vicepresidente di Confindustria Firenze ed ha creduto molto in Matteo Renzi. «Quello che con le primarie, nel 2009, ha compiuto Matteo – un amico che ho sostenuto – è stato il suo vero big bang. Firenze era in coma profondo. Veniva dai peggiori dieci anni del dopoguerra. Lui ha fatto quello che dovrebbero fare di norma i politici: ha riacceso una speranza. Ha fatto riavvicinare alla politica quella borghesia produttiva da sempre schifata dai partiti e dalle loro logiche. E questo è il bicchiere mezzo pieno. Poi c’è quello mezzo vuoto. Ed è l’azione amministrativa. Il suo attivismo anche sfrenato, ma spesso un po’ scomposto, non organizzato… Non è nemmeno colpa sua… Se la pubblica amministrazione non funziona, se hai in mano un carrozzone inefficiente da 5mila dipendenti come il Comune di Firenze, tutto è difficile. Hai voglia a girare lo sterzo, se il motore non parte, resti sempre nello stesso posto».
Curìa è un orgoglioso imprenditore. «E guardi», assicura, «che da queste parti è una lotta. Non c’è una mentalità favorevole al fare impresa. Il sostrato cattocomunista porta a un’ostilità antropologica, prima ancora che politico-sindacale. Se hai fatto i soldi, sei per forza un figlio di puttana. Io a Renzi lo dico sempre, che un imprenditore come me, che produce ricchezza e non chiede contributi pubblici, dovrebbe difenderlo come un panda, una razza in via d’estinzione. Perché il problema qui è che siamo rimasti l’unico Paese sovietico del mondo. Anche gli imprenditori di destra, i miei colleghi in Confindustria, sono statalisti, e si aspettano aiuti dal pubblico, e alla fine non considerano se stessi e l’impresa privata con il giusto orgoglio. Io faccio lavorare mio figlio un mese all’anno in azienda. Lavori umili, come il magazziniere. Lo ritengo formativo. Vengo da una famiglia borghese del Sud e lì sarebbe stato impossibile. In Calabria il lavoro è considerato un disvalore, una condanna, una cosa da disgraziati che devono cacciarsi il pane. Dal 1973 a oggi, da quando sono arrivato a Firenze, mi sembra che la città si sia avvicinata più al Sud che al Nord. Allora era ancora vivo l’orgoglio per la reazione all’alluvione del ’66. Per come si erano rimboccati le maniche. I bottegai ti dicevano che una settimana dopo avevano già riaperto i banchetti sui marciapiedi. Mica aspettavano l’aiuto dello Stato, ci mettevano del loro. Ora, non è più così. E allora quello che posso rimproverare a Matteo è di non fare abbastanza per l’unica infrastruttura che davvero manca a Firenze, l’infrastruttura culturale. Lavorare sulle scuole, far capire cos’è un’impresa e che il padrone non è un nemico, ma – come ripeto sempre io con una battuta – uno che ti tratta bene per sfruttarti meglio. Invece, qui, raramente il dipendente si sente sulla tua stessa barca. Persino i fornitori sono sempre più svogliati. Da Renzi mi sarei aspettato un lavoro strutturale, per invertire questa tendenza culturale cittadina di sospetto verso il fare. Io gli consigliavo, al momento dell’elezione, una giunta di omini col cacciavite in mano. Intendevo gente tecnica, pratica, per ricostruire la macchina. Perché qua il problema è strutturale, meccanico, non di carrozzeria. E per quanto lui sia bravo a gestire la comunicazione, con quella si va poco lontano. L’effetto annuncio è il vero meccanismo impazzito della politica italiana. Puoi trovare quanti affreschi di Leonardo vuoi, ma se poi un imprenditore come me, che fattura 3 milioni l’anno, ne investe due nella nuova sede della casa editrice, comprando una vecchia carrozzeria in disarmo e facendola riprogettare da un grande architetto, e deve passare tre anni nelle scartoffie, coi lavori fermi e ben tre ricorsi al Tar, è difficile crescere e sentirsi cittadini e non sudditi».
Un altro intellettuale cittadino che si è avvicinato alla politica con la scesa in campo di Renzi nel 2009 è Giampiero Maria Gallo, che insegna Econometria finanziaria e Microeconometria all’Università di Firenze. Il professore, che si occupa di modellistica delle serie storiche finanziarie e in particolare studia la volatilità sui mercati con i Multiplicative Error Models che ha sviluppato a San Diego con l’economista statunitense Robert Engle, premio Nobel nel 2003, ha iniziato il suo ciclo politico come consigliere comunale con delega alla bicicletta. Il suo compito è aumentare il numero di fiorentini a pedali, per decongestionare il centro da auto e motorini. «Battaglia dura», spiega, «soprattutto a livello culturale. Perché in Toscana resta ancora forte il pregiudizio che vede nalla bicicletta il mezzo dei poveri, di chi non può permettersi la macchina. E poi perché scatena sempre il sospetto dei commercianti, che temono nuove chiusure al traffico. Io sono un uomo quantitativo per formazione, e vorrei far passare l’idea, ormai avvalorata da diversi studi, che la mobilità ciclistica aumenta la propensione al consumo. Non c’è la paura della multa, c’è maggiore facilità a fermarsi e a parcheggiare il mezzo… I timori dei bottegai sono irrazionali». Anche sulle piste ciclabili ha invertito la tendenza: «Basta con la costruzione disordinata di spezzoni», dice. «Prima di ampliare, bisogna ricucire una rete che ora si interrompe a ogni ostacolo, ed è quindi poco fruibile».
Gallo crede molto nelle possibilità di sviluppo infrastrutturale: «La prima linea della tramvia, quella che arriva da Scandicci, ha portato grossi benefici, anche se mancano ancora i parcheggi scambiatori. Quando riusciremo a costruire anche le altre due linee, la città prenderà un’altra fisionomia e diventerà meno trafficata e più vivibile. Ora la vera sfida è il recupero dei volumi che resteranno vuoti con lo spostamento di tutti gli uffici di giustizia nella nuova sede del Tribunale, in periferia. Non dovremo lasciare abbandonate quelle zone, e anzi dovremo farne contenitori vivi sia il giorno che la notte, un po’ come siamo riusciti a fare con le Oblate, una biblioteca di moderna concezione aperta fino a mezzanotte. E poi costruiremo la stazione sotterranea per l’alta velocità, e il nostro sogno, dopo, è recuperare gli attuali binari di superficie per costruire una S-bahn fiorentina, che si intersechi con la tramvia. Matteo ha cambiato questo: non siamo più ostaggi dei comitati capaci solo a dire no, che a Firenze nascono come funghi e si oppongono a tutto. Con Renzi vogliamo far entrare Firenze nella classe di città creative capaci di attrarre giovani menti anche dall’estero. Il potere evocativo della città è molto forte, ma non possiamo basarci solo sui 50 anni in cui Firenze è stata grande nel Rinascimento. Dobbiamo renderla piacevole per chi ci vive oggi. Un posto dove è facile spostarsi, un po’ come a Berlino. Altrimenti rischiamo la sindrome veneziana, diventare una città museo, attraversata dalla continua transumanza del turismo di massa».
Un rischio in parte già realtà, almeno secondo Uliano Ragionieri («porto il mio nome senza imbarazzi, visto che ormai in pochi sanno che era il cognome di Lenin»), presidente di Confesercenti in città. «Adesso il Comune vuole fare qualcosa per evitare che il centro diventi del tutto una kasbah dove si vendono solo pizza al taglio e magliette. La sensazione è che si cerchi di chiudere la stalla quando ormai gran parte dei buoi sono scappati. La rendita immobiliare sta producendo effetti devastanti. Ormai gli affitti per un fondo in centro si aggirano sui 30-40mila euro al mese, e questo porta a un turn over continuo, di chiusure e riaperture, e a un frequente abbassamento di qualità, soprattutto nel settore enogastronomico, dove si va sempre più verso kebab, menù a sei euro, ribollita in scatola… Poco o nulla si è fatto per la difesa dei negozi storici, assediati dal turismo di massa che chiede prezzi sempre più bassi, e dalla diffusione degli ipermercati e della grande distribuzione».
Con Renzi, Ragionieri non è tenerissimo: «Prima di lui la concertazione era il metodo. Non dico che non rallentasse le decisioni, ma se lo faceva era per la debolezza della politica. Lui invece vede la concertazione come il fumo negli occhi. Decide lui e basta. Farsi ascoltare è diventato molto complicato. È un uomo solo al comando. Anche gli assessori non hanno più l’indipendenza di un tempo. Ti dicono sempre: “Ne parlo con Matteo e poi vi faccio sapere”. Gli piace la politica degli schiaffi, e molto astutamente si presenta come quello che non ha timore reverenziale verso chi in passato metteva il cappello sulla politica cittadina. Per questo ha grande successo ed è tanto amato. Ma vi sembra davvero che i bottegai siano un potere forte? Boh. Ha messo in atto uno spoil system formidabile, piazzando i suoi fedelissimi ovunque, nella Fondazione Cassa di Risparmio, nell’Aeroporto, alla Centrale del latte, all’azienda dei trasporti Ataf. Rimane un po’ indipendente la Camera di Commercio, e non a caso sostiene sempre che le Camere di Commercio andrebbero abolite. Comunque, nella comunicazione è un genio. Guardate questa cosa dell’affresco di Leonardo. Per carità, lì ci sono i più grandi esperti mondiali e la mia non è che l’esperianza da bricoleur domenicale, ma se anche davvero ci fosse stato questo dipinto, cosa ne rimarrebbe dopo tutti questi secoli in una intercapedine all’umido? Comunque grazie a questa storia, tutti parlano di lui, e anche di Firenze, beninteso. Proprio un furbone, Matteo».
Uliano Ragionieri, che è classe 1945 e figlio di un capo del Cln, è stato a lungo commissario del Partito comunista nell’empolese e conosce una a una le fabbriche del Fiorentino. «Non è vero che a Firenze non c’è industria, come si è portati a credere», spiega. «Nel campo della meccanica c’è la Galileo e c’è la Nuova Pignone, che fa parte di General Electric, ed è considerata all’avanguardia mondiale. Poi è presente il settore farmaceutico, con la Menarini e la Lilly. C’è Richard Ginori (porcellana, ndr), per quanto in grossa crisi. E resiste la pelletteria, con tutto l’indotto conciario che arriva dal pisano, da Santa Croce sull’Arno. La ditta più importante resta Gucci. Certo, in provincia, ci sono zone industriali dove la crisi ha finito di spazzare via tutto. Nella Valdelsa e nella Valdarno la situazione è nera. Nell’Empolese c’erano oltre trecento aziende di confezioni. Ormai è tutto chiuso. Il loro problema è che erano fasonisti, insomma producevano abbigliamento per conto terzi, senza marchio proprio. Quando i committenti hanno trovato all’estero prezzi più bassi è tutto finito. Idem nel settore del vetro meccanico. Si producevano milioni di bottiglie qui. Con il Pet, la bottiglia in plastica, è iniziata una crisi progressiva, senza capacità di riorientare la produzione. Ed è finita male anche la tradizione dei calici in semicristallo. Costavano sui 12 euro. Ora si trovano a 0,50. Insomma, il turismo dobbiamo tenercelo stretto e dobbiamo investire in cultura, tanto che, come Confesercenti Firenze, abbiamo creato la categoria “Cultura e impresa” che riunisce tutti gli operatori del settore. Dobbiamo cercare di non diventare troppo schiavi dei grandi operatori che muovono pacchetti di migliaia di turisti e condizionano i prezzi al ribasso. Renzi deve provare a governare il fenomeno. Perché a Firenze il turismo non è in crisi come numero di visitori, che anzi aumentano, ma il saldo è negativo come fatturato. Segno che la propensione alla spesa si è ridotta di molto. Gli alberghi, rispetto a tre anni fa, hanno ridotto le tariffe, in alcuni casi addirittura del 30 per cento. Nei ristoranti, i clienti che ordinano primo e secondo sono diventati una rarità. Ora va il piatto unico, prima di correre a riprendere l’aereo low cost».
Claudio Pescio è il direttore responsabile di Artedossier (il direttore artistico è Philippe Daverio), rivista d’arte pubblicata dalla Giunti, ultima grande casa editrice rimasta a Firenze. Genovese, ha forse il giusto distacco per meglio valutare le cose di Firenze e del suo sindaco. «Un po’ è un luogo comune, ma un po’ è vero: i fiorentini sono chiusi, arroccati», dice. «Non sono innovatori. Non lo sono più da qualche secolo. C’è molto orgoglio qui. Anche giustificato. Ma basato tutto su un passato che si ritiene sufficiente, e spesso trasformato in un feticcio. In fondo vale anche per Renzi, con questa operazione della ricerca della Battaglia di Anghiari. Tu in questo modo vai a cercare ancora una volta le prove per dimostrare la grandezza del passato, non qualcosa di nuovo. E lo fai forzando i toni, creando un evento, con la grancassa della propaganda. Per ora è emersa polvere nera e polvere rossa, compatibile con il pigmento usato da Leonardo. Io c’ero alla conferenza stampa e c’erano tv e giornali di mezzo mondo. Era un po’ surreale. In fondo dicevano: “Abbiamo fatto sei buchi, guardate che bei buchi”. L’importante è che non facciano danni al sovrastante affresco del Vasari, ma l’Opificio delle pietre dure sorveglia. Per il resto, a livello culturale, Renzi ha fatto buone cose. Penso alla nuova sede del Maggio fiorentino recentemente inaugurata, ad alcune mostre alla Strozzina, galleria annessa a Palazzo Strozzi. E il polo museale fiorentino ha iniziative lodevoli sotto il profilo scientifico, ma nessuna è un blockbuster che attrae le masse. Inutile. Qui la gente viene per il David e per gli Uffizi. Tutto il resto è abbastanza destinato a naufragare. Non c’è nemmeno un museo di arte contemporanea a Firenze. E alcune settimane tematiche, con mostre del mobile o del design, non hanno un impatto significativo. Firenze resta periferica. Il fatto è che, rispetto a Milano, manca un tessuto connettivo di designer e artisti attivo tutto l’anno. Qui l’evento, anche quando è ben promosso mediaticamente, viene un po’ calato dall’alto, e quando finisce, arrivedererci all’anno prossimo».
Guido Ferradini è un avvocato giuslavorista fiorentino. Anche lui renziano della prima ora, intervenne dal palco di Prossima Fermata Italia, la prima Leopolda, quella del 2010. Parlò di riforma del lavoro (va molto d’accordo con il ministro Fornero), di dumping sociale dei Paesi in via di sviluppo, della necessità di riformare il mercato del lavoro a livello europeo e non nazionale (anche con l’imposizione, per chi vuole entrare nella Ue, di certi criteri minimi di diritti dei lavoratori, così come si fa per altri diritti) e concluse citando l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: «Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto a eguale retribuzione per eguale lavoro».
Oggi è tra i fondatori di Officine democratiche, «un’associazione culturale», spiega, «nata nell’ottobre scorso tra gente che aveva voglia di discutere di politica e non aveva voglia di essere risucchiata nella dialettica asfittica del Pd».
«Attorno a Renzi», puntualizza, «non è nato nato un think tank, e allora noi ci siamo fatti il nostro. Matteo è un amico, ma è lui che non vuole la discussione, è un po’ così di carattere, un “so tutto io”. Comunque, Officine democratiche è stata invitata al Big bang, unica associazione ammessa oltre al Pd e alla sua. Un bel riconoscimento». Quelli di Officine democratiche si divertono. Una volta hanno comprato un barcone di legno a Viareggio e l’hanno parcheggiato davanti a Santa Maria Novella, tutto pieno di panni presi a Prato, a simboleggiare la disfatta dell’Italia. Un’altra volta hanno organizzato un flash mob sul Ponte Vecchio, ma si sono presentati solo in due – Ferradini e un amico – perché gli altri, tutta buona borghesia intellettuale fiorentina, avevano paura di essere arrestati. «Che vuole, si cerca di far politica un po’ in modo moderno», sorride. «I comizi ormai sono fuori dal tempo. Il vero dramma è che la partecipazione alla vita politica è ancora totalmente occupata dai partiti. Senza il loro appoggio, non si apre nessuna porta. Io sono stato responsabile Lavoro per il Pd fiorentino. Poi, con l’epurazione dei renziani ai tempi delle primarie, sono stato escluso. Con Matteo qualche professore è riuscito a entrare nelle segrete stanze della politica, tipo Gallo, che ha la delega alla bicicletta. Ma ne manca ancora di strada per fare una vera rivoluzione. Quello che scoraggia di più sono i tuttologi. E l’immarcescibile logica del Cencelli. Perché io che sono giuslavorista devo trovarmi a confrontarmi su tecnicalità del mercato del lavoro con un allenatore di pallacanestro o un pizzicagnolo piazzati in ruoli chiave dal partito solo perché aderiscono a qualche corrente? Va beh, finiamola qua. Accontentiamoci di questi brevi cenni sull’infinito…».
Claude Benassai è un organizzatore di eventi culturale ed è attivo nella Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Firenze, il più antico ente morale di solidarietà, fondato nel 1244. «Renzi? Gli va riconosciuto che è un tipo caparbio. Quello che si mette in testa, lo fa, senza ascoltare nessuno, senza sentire ragioni. Alcune volte ci azzecca. Io vivo in centro e la chiusura al traffico della zona del Duomo, dove prima passavano qualcosa come 1.400 autobus al giorno a un metro dal Battistero, ha avuto un ritorno molto positivo. Da pochi giorni ha inaugurato le Murate, un centro culturale che potrebbe diventare protagonista della vita culturale fiorentina. E ha iniziato una politica per il decoro urbano, obbligando gli esercizi pubblici a una risistemazione dei dehor. Provvedimenti che, se avesse dovuto ascoltare tutte le campane, non avrebbe mai portato a termine. Pure con la tassa di un euro applicata ai turisti sono d’accordo, anche se forse sarebbe più giusto reinvestire i proventi nel settore turistico-culturale. Quello in cui sta mancando è nella capacità di incidere a un livello culturale più vasto, più profondo. Quando ci sono periodi di crisi come questo, si creano tensioni e la riflessione perde sempre campo. Si cercano soluzioni arrabattate, nel breve e non nel lungo periodo. Gli albergatori hanno diminuito la qualità e i prezzi. Appena il flusso turistico flette un po’, qua si sbraca, ci si tirano giù le mutande. Gli standard si abbassano e dopo è difficile rialzare l’asticella».
«Ora», prosegue Benassai, «Il rimprovero che mi sento di fare a Renzi è che una amministrazione locale, tanto più in un momento come questo, dovrebbe cercare di contagiare la gente e i giovani con la curiosità e l’entusiasmo. Io non lo critico per il fatto di usare i media, sia la tv che internet. La ritengo una grande capacità. Ma mi spiace un po’ che viva come un fastidio la discussione e il coinvolgimento popolare. All’inizio aveva indetto dei tavoli pubblici. Io sono andato tre o quattro volte. Ma poi non c’era seguito a quello che si diceva. Erano inutili. Renzi è amato, gira in bicicletta e in auto elettrica, saluta tutti, dà la mano, bacia le signore. Ma il consiglio che gli do è di cercare di coinvolgere di più la base, il popolo. Lo so che è più difficile acquisire il potere a questo modo. Che è più lento, che troverai chi ti dà contro, chi questiona, chi discute. Ma solo quel potere è stabile. Solo quello non è un investimento di breve periodo, una bolla speculativa di consenso. La crisi che stiamo attraversando dovrebbe insegnare qualcosa a tutti nei comportamenti. È solo il risultato di quanto abbiamo seminato».
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