British Petroleum apre ancora il portafoglio, ma tiene a precisare che «non è un’ammissione di colpa». La scorsa notte, attraverso un comunicato stampa, il colosso petrolifero inglese ha annunciato che sborserà sei miliardi di euro (7,8 miliardi di dollari) per risarcire 100mila persone dai danni causati dalla marea nera che ha distrutto le coste della Louisiana.
La cifra rappresenta il risultato della mediazione extragiudiziale, «per risolvere la maggioranza delle richieste di risarcimento economiche e mediche che derivano dall’incidente», condotta assieme agli avvocati che rappresentano gli interessi di quanti sono stati danneggiati dalla falla nella piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, al largo del Golfo del Messico, incidente in cui sono morte 11 persone e sversati in mare oltre 4 miliardi di barili di petrolio. Alla notizia è seguita la sospensione a data da destinarsi – deliberata dal giudice Judge Carl Barbier della Corte Federale di New Orleans – della prima udienza dell’atteso processo, prevista per lunedì prossimo. In ogni caso, dal perimetro dell’accordo sono escluse le richieste avanzate dal Dipartimento di giustizia Usa e degli enti federali, così come le richieste di risarcimento da parte degli azionisti.
Stephen Herman e James Roy, gli avvocati che rappresentano il comitato delle vittime, hanno spiegato che «L’accordo consentirà un pieno risarcimento a centinaia di migliaia di persone in modo tempestivo e giuridicamente rigoroso». Bob Dudley, amministratore delegato della Bp succeduto a Tony Hayward nel luglio del 2010, ha dichiarato: «L’accordo rappresenta un significativo passo in avanti per risolvere i problemi causati dall’incidente della Deepwater Horizon e contribuire ancora di più nello sforzo di ripristinare le condizioni economiche e ambientali nella costa del Golfo». I fondi saranno attinti dai 20 miliardi di dollari accantonati dalla compagnia tramite un Trust, e di questi 2,3 miliardi andranno in compensazioni economiche per il rilancio dell’industria ittica della Louisiana e 105 milioni per un programma di sviluppo sanitario nelle aree colpite. Prima dell’accordo odierno, tiene a far presente Bp, la società ha già speso oltre 22 miliardi di dollari per mantenere i propri impegni, tra cui 8,1 miliardi verso singoli individui, aziende e enti governativi, e 14 miliardi nelle operazioni di chiusura della falla.
Dal punto di vista finanziario, precisa ancora il comunicato, l’accordo non peserà ulteriormente sui 37 miliardi già stimati nei bilanci degli anni scorsi. Una specificazione dovuta: da maggio 2010, periodo in cui è stata svelata al mondo la gravità della situazione, le azioni della Bp hanno perso il 23 per cento, e la compagnia britannica stima una capacità di esborso di altri 5 miliardi di euro senza alcun impatto negativo alla voce “profitti”.
Non si ferma, invece, il gioco a rimpiattino delle accuse tra la Bp, Transocean, proprietaria della trivella, e Halliburton, società guidata negli anni ’90 da Dick Cheney, poi vice presidente nell’amministrazione Bush. Nella memoria consegnata al tribunale di New Orleans, alla fine della scorsa estate, la società ha accusato il contractor di aver utilizzato, per ancorare al fondo dell’oceano la piattaforma, una tipologia di cemento troppo “leggera”. In realtà, ogni attore nella vicenda ha la sua parte di colpa, come ha stabilito in prima battuta un’indagine commissionata dalla Casa Bianca e ha confermato poi il Bureau of Ocean Energy Management, Regulation and Enforcement in collaborazione con la Guardia Costiera americana.
In quest’ultimo documento l’agenzia governativa ha certificato «gravi violazioni» delle normative federali tanto nelle procedure di sicurezza per i contractor quanto nel contenimento della fuoriuscita di petrolio e gas, nella protezione della salute dei lavoratori e dell’ambiente, e nella mancata notifica alle autorità Usa delle modifiche avvenute nei piani di trivellazione.
E mentre l’iter legale prosegue, il presidente Obama – che aveva nuovamente autorizzato la Bp ad effettuare trivellazioni al largo del Golfo del Messico, alla fine di gennaio ha negato l’autorizzazione all’oleodotto Keystone XL, progetto che avrebbe interessato sei stati americani, partendo dai giacimenti canadesi dell’Alberta fino al Texas. Un’inversione a U non casuale nell’anno delle elezioni del presidente che, nel 2008, aveva fatto dell’ecologia una bandiera e un punto focale nella sua agenda di governo.
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