Jeffrey Rae ha più di quattromila follower sul suo profilo Twitter, dove si definisce «un attivista del lavoro e un agitatore». La maggior parte li ha conquistati lo scorso autunno quando, appostato a Zuccotti Park, ha partecipato alle manifestazioni di Occupy Wall Street raccontando, tweet dopo tweet, l’andamento della protesta.
Una settimana fa, Rae ha ricevuto una mail da Twitter. «Gentile utente», si leggeva nella mail, «le scriviamo per informarla che le forze di giustizia ci hanno chiesto di fornire informazioni riguardo al suo account, @jeffrae». In allegato, un mandato di comparizione, spedito l’8 marzo 2012, in cui la corte di New York chiedeva al social network una serie di dati sensibili, riguardanti l’attività svolta online da Rae durante i giorni caldi di Occupy.
A Twitter la polizia di New York chiedeva di fornire, nell’ordine: i dati personali di Rae; tutti i tweet pubblicati dall’utente tra il 15 settembre 2011 e il 30 ottobre 2012; la lunghezza delle sessioni di connessione effettuate; il numero e il tipo di dispositivi usati per connettersi alla piattaforma; gli indirizzi IP utilizzati da Jeff per postare i suoi racconti della protesta.
Secondo alcune testate americane l’obiettivo del district attorney, il procuratore distrettuale, era quello di raccogliere informazioni riguardanti gli eventi del primo ottobre 2011, giorno in cui Rae, insieme ad altre 700 persone, è stato arrestato per aver manifestato sul ponte di Brooklyn bloccando il passaggio alle automobili. Non è chiaro però se dietro alla richiesta ci fosse la volontà di accedere ad una quantità più ampia di informazioni riguardanti l’attività di Rae, uno degli organizzatori del movimento Occupy.
Una parte del mandato di comparizione inviato dal distretto di New York a Twitter
Nella mail che lo informava delle richieste della polizia, Twitter invitava Rae ad avvalersi della consulenza di un avvocato. «Entro sabato 17 marzo forniremo i dati richiesti al procuratore distrettuale», spiegava la società californiana, «a meno che lei non ci avverta della sua intenzione di depositare una mozione di richiesta dell’annullamento del procedimento o che ci dica che la situazione si è risolta in altro modo».
Così ieri Paul L. Mills, il legale di Rae, ha scritto a Twitter una missiva (leggi testo integrale) in cui invita il social network a non fornire i dati richiesti. L’avvocato ha evidenziato diversi vizi di forma («il mandato non è firmato da alcun giudice») e di sostanza («manca una spiegazione che motivi la richiesta del procuratore») e ipotizza una violazione, da parte degli organi di giustizia, del Primo Emendamento della legge 3101, che protegge l’anonimato degli utenti su internet.
Twitter, dopo aver vagliato le motivazioni dell’avvocato di Rae, ha deciso – almeno per il momento – di non comunicare i dati richiesti (leggi la mail inviata da Twitter a Rae). Ora il giovane dovrà depositare una mozione in cui chiede l’annullamento del procedimento legale nei confronti dei suoi tweet alla corte di New York e attendere per scoprire se sarà accolta. In caso negativo, la palla tornerà al procuratore, che chiederà nuovamente a Twitter di fornire i dati dell’account.
Intanto però queste misure stanno scatenando forti polemiche, dentro e fuori gli Stati Uniti d’America. «Sono sopreso», ha detto Rae alla Reuters. «I nostri politici vanno in Egitto ad applaudire la gente perché utilizza Twitter e poi, quando questo avviene dentro ai loro confini, ci spediscono mandati di comparizione».
Quello di Rae non è il primo caso di un utente Twitter “indagato” dagli organi di polizia in seguito alle manifestazioni di Occupy Wall Street. A febbraio fu l’attivista Malcom Harris a ricevere una simile notifica dal dipartimento legale della società di Folsom Street. Come Rae, anche Harris ha contestato il mandato riuscendo a bloccare il procedimento legale.
Secondo Harris questo tipo di azioni hanno un effetto destabilizzante sulla libertà di utilizzo dei social media negli Stati Uniti. «Il problema principale non è se questi procedimenti legali porteranno al mio arresto oppure no», ha spiegato l’attivista. «Il problema è che scoraggeranno le persone dall’usare Twitter durante le proteste. Le forze di giustizia vinceranno in ogni caso: anche se non riuscissero mai ad accedere agli archivi di Twitter per procurarsi prove contro di noi, ci faranno passare la voglia di utilizzare la piattaforma».