Dopo Palermo si avvelena il dibattito nel Pd e aumentano le voci critiche su Bersani che si spingono fino a immaginare le sue dimissioni. Mi è capitato più volte di criticare il segretario del Pd, ma questa volta non vedo una sua particolare responsabilità e soprattutto non capisco perché debba dimettersi e se sia utile al partito un suo passo indietro.
Qualunque segretario, e soprattutto i suoi predecessori, avrebbe candidato Rita Borsellino. Dopo il voto è facile criticare questa scelta, ma prima del voto chiunque si fosse opposto alla sorella del grande magistrato sarebbe apparso come un traditore della patria. Mimmo Gangemi, bravissimo scrittore calabrese autore di un libro, “La signora di Ellis Island”, di grande respiro sull’emigrazione italiana in America e in Africa, sostiene su Facebook che sarebbe ora di finirla di candidare i parenti delle vittime di mafia e terrorismo. In molti casi si è trattato di operazioni di pura vetrina, nel caso di Rita Borsellino abbiamo invece avuto un personaggio che ha acquisito un suo prestigio personale. Che tuttavia si è consumato. Questo lo sappiamo ora. Prima di domenica tutti avrebbero scommesso, tranne il nostro Falci, che aveva previsto la vittoria di Ferrandelli, che per la signora Borsellino la strada era spianata. Come avrebbe potuto opporsi alla sua candidatura Bersani?
Altra cosa è, come scrive sul “Mattino”, Mauro Calise, uno dei più intelligenti politologi italiani, sostenere che le primarie senza regole non vanno bene. Calise scrive che se oggi un nuovo personaggio partecipasse alle primarie repubblicane americane vincerebbe sugli attuali spenti candidati, ma ciò non può accadere perché le primarie americane prevedono che votanti e candidati sia iscritti nelle liste del partito. In Italia ogni volta che è stato messo in discussione questo modo di fare le primarie a “come-capita-capita” è stato sollevato un vespaio. Anche da parte di Arturo Parisi che ha voluto le primarie plebiscitarie per Prodi e che oggi pensa che la sconfitta di Palermo sia tutta responsabilità di Bersani. Quindi, palla al centro e autocritica generale su Palermo.
Il tema delle dimissioni del segretario è altrettanto surreale. Lo ripeto, non sono un suo tifoso, anzi spesso i suoi supporter si lamentano sul mio blog, ma credo che le sue dimissioni non risolverebbero il problema. Qual è il problema? Il problema è che il Pd non è messo dall’intero suo gruppo dirigente nelle condizioni di avere una linea perché è l’unico partito italiano che convive con la minaccia perenne di scissione. E questa minaccia è la conseguenza di una mancata definizione di identità che gli impedisce qualunque movimento. Quando parliamo di identità spesso pensiamo a un dato ideologico.
Oggi un gruppo di giovani dirigenti del Pd immagina che questa identità debba essere socialdemocratica. Anche io lo penso, ma so che il concetto di socialdemocrazia non restituisce un sistema di certezze perché la grandezza del socialismo europeo sta nella sua indeterminatezza ideologica e la sua forza nella volontà di convivere, riformandolo, con il capitalismo nella consapevolezza che anche questo non è un sistema chiuso ma un modello aperto. L’identità che manca al Pd è proprio questa mancanza di progetto sociale e lo scontro fra culture di governo spesso del tutto opposte, basti solo pensare a come sia durata a lungo la coabitazione fra il “dirigista” Bersani e il “liberista” Enrico Letta.
Si risolve qualcosa con l’accantonamento di Bersani? Nulla, proprio nulla. Per di più oggi il Pd non ha un segretario di ricambio che lo metta al riparo dalla secessione di una sua parte. Non resta quindi che aprire un discussione congressuale con l’ambizione di definire un vero programma fondamentale che tragga il Pd dalle secche della indeterminatezza. Se funziona bene, sennò ognuno andrà dove lo porta il cuore.