Immaginiamoci una stanza. È ampia. La carta da parati, consumata dal tempo, è decorata con una fantasia dalla ripetizione continuativa. Al centro c’è un bel tavolo di noce intarsiato con a lato, dalla parte del camino acceso, tre poltrone di pelle, comode. Una parete è coperta di libri, disposti in ordine meticoloso. La libreria ha sette piani e raggiunge il soffitto. È maestosa come i nomi che si possono leggere sui dorsi: Aristotele, Epicuro, Locke, Machiavelli… E ancora, Hawthorne, T.S.Eliot, Leopardi, Dickens, Perec, Virginia Wolf, John Stuart Mill, Flaubert… Un grande tappeto orientale ricopre il pavimento di marmo. Ampie e chiare tende adornano le grandi finestre, da dove entra la luce invernale del giardino. Sembra che ci sia «un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto». La primavera tarda, a Londra. Tre amici discorrono. Si sono ritrovati dopo anni di lontananza. Karl è un ragazzo ungherese, nella City ormai da anni. Con Oscar è venuto a far visita al vecchio amico John M., che è da poco rientrato da un spedizione in India con il ministero dell’Economia. Ovviamente bevono il tè.
Oscar notò il libro lasciato distrattamente aperto da John M. quando lui e Karl erano arrivati. Era al centro del tavolo, accanto al vassoio d’argento. Lo prese in mano. Era rilegato finemente. Sulla copertina, scura e rigida, leggeri ricami in filo d’oro riproducevano il nome dell’autore e il titolo del libro: Jeremy Bentham (1748-1832), «A Manual of Political Economy». Sfogliandolo, Oscar si fermò su una pagina fitta di appunti e sottolineature dell’amico. Più precisamente, rimase incuriosito dal grande e pesante punto interrogativo tracciato in fondo alla pagina. Ne fu così colpito che smise di ascoltare quello che Karl e John M. si stavano dicendo. Lesse in silenzio e poi li interruppe. «Scusatemi», disse col tono di chi non può fare altrimenti, «ma mi sono soffermato su questa pagina che, tu John, a giudicare dagli appunti, dovresti conoscere bene. Vorrei leggerla anche a Karl e sentire cosa gliene pare». E lesse: «La regola generale è che niente dovrebbe essere fatto o tentato dal governo. Il motto o la parola d’ordine del governo, in questa occasione, dovrebbe essere star fermi (Laissez-faire)… La richiesta che l’agricoltura, l’industria, il commercio presentano ai governi è modesta e ragionevole, come quella di Diogene ad Alessandro: togliti dal sole».
Oscar finì di leggere e alzò lo sguardo. John M., che conosceva bene il libro, e lo aveva così tanto sottolineato, bevve un ultimo sorso di tè e iniziò per primo:
❝Gli economisti, come altri scienziati, hanno scelto l’ipotesi, dalla quale partono e che essi offrono ai nostri novizi, perché è la più semplice e non perché sia la più vicina ai fatti… essi hanno cominciato con il presupporre uno stato di cose in cui la distribuzione ideale delle risorse produttive si può ottenere mercé individui che agiscono indipendentemente secondo un metodo sperimentale, in modo che, quelli che si muovono nella direzione giusta distruggono per mezzo della concorrenza quelli che si muovono nella direzione sbagliata. Ciò presuppone che non vi sia garanzia né protezione per coloro che instradano il proprio capitale o il proprio lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta in alto i ricercatori di guadagno cui arride il successo, grazie alla spietata lotta per la sopravvivenza, che seleziona il più efficiente per mezzo del meno efficiente.❞
Karl, che nonostante ascoltasse attentamente le parole di John rifletteva ancora ossessivamente sul passo letto da Oscar, si alzò dalla poltrona e si mise a passeggiare pensosamente. Si fermò alla finestra, guardò per un momento il maestoso salice piangente, padrone del modesto giardino di John, poi si girò di scatto e intervenne:
❝Il punto cruciale è questo: Lavoro Terra e Moneta sono elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono essere organizzati in mercati poiché formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci, e il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. In altra parole, secondo la definizione empirica di merce essi non sono delle merci. Il Lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana, la Terra è soltanto un altro nome per la Natura che non è prodotta dall’uomo e la Moneta è solo un simbolo del potere di acquisto. La descrizione, quindi, del Lavoro, della Terra e della moneta come Merce è interamente fittizia.❞
John M. guardò dritto negli occhi Karl annuendo. Karl prese una sigaretta e, offrendone una a Oscar, gli chiese cosa ne pensasse. Lui, iniziando a fumare con una certà teatralità, non si fece pregare due volte:
❝Ora, poiché lo Stato non governa più, ci si potrebbe domandare cosa farà lo Stato. Lo Stato costruirà un’associazione volontaria che organizzerà il lavoro e sarà il produttore e il distributore delle merci d’uso indispensabili. Lo Stato deve fare ciò che è utile. L’individuo ciò che bello. Vi propongo un esempio: un uomo possiede una macchina che compie il lavoro di cinquecento uomini. Cinquecento uomini, di conseguenza, perdono il loro posto e, non avendo lavoro diventano degli affamati e cominciano a rubare. Quel solo uomo si assicura il prodotto della macchina e se lo tiene e possiede cinquecento volte di più di quanto dovrebbe avere e, probabilmente, cosa che è di importanza ancor maggiore, assai di più di quanto realmente gli occorra. Se la proprietà di quella macchina fosse di tutti, ciascuno ne beneficerebbe.❞
John e Karl rimasero meravigliati dalle parole del loro amico, sempre restio a trattare temi di politica e di economia. Erano abituati ad ascoltare da Oscar lunghi e profondi monologhi sulla tragedia greca o riflessioni sulle rappresentazioni teatrali in voga a quel tempo nel Regno Unito, ma mai riflessioni su temi economici. Oscar, si riavvicinò al tavolo, spense la sigaretta nel posacenere di cristallo e, appoggiando la mano sulla spalla di John M., precisò:
❝Poi secondo me è immorale fare uso della proprietà privata per alleviare gli orribili mali che derivano dall’istituzione stessa della proprietà privata. È tanto immorale quanto brutto. Con il socialismo tutto questo, naturalmente, muterà. II socialismo stesso avrà valore soltanto perché porterà all’individualismo […] Una carta del mondo che non contiene il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l’Umanità approda di continuo. E quando vi getta l’ancora, la vedetta scorge un Paese migliore e l’Umanità di nuovo fa vela. Ovviamente, però, non dobbiamo scordarci che l’Arte è la più intensa manifestazione d’individualismo che il mondo conosca. Essa non deve mai tentare di farsi popolare. Il pubblico deve cercare di diventare artistico. E per concludere, cari amici, aggiungo un altro esempio interessante: Una rosa rossa non è egoista perché vuole essere una rosa rossa. Sarebbe terribilmente egoista se volesse che i fiori del giardino fossero tutti rossi e tutte rose.❞
Subito un silenzio di riflessione calò nella stanza. John M., infastidito dalle parole di Oscar, rubò la parola a Karl, e disse a perdifiato all’amico di non condividere affatto quel che diceva:
❝Io critico il socialismo di Stato dottrinato non perché esso cerchi di assoldare al servizio della società gli impulsi altruisti degli uomini o perché si discosti dal laissez-faire, o perché esso sottragga una parte della libertà naturale dell’uomo di crearsi una grande ricchezza. Io lo critico perché non afferma il significato di quanto accade realmente nella società in sostanza , è poco meglio di una resurrezione di un piano polveroso per far fronte ai problemi di cinquecento anni fa, basato su un fraintendimento di ciò che qualcuno disse cent’anni or sono. […] I principi del laissez-faire hanno avuto altri alleati oltre i manuali di economia. Va riconosciuto che tali principi hanno potuto far breccia nelle menti dei filosofi e delle masse anche grazie alla qualità scadente delle correnti alternative, da un lato il protezionismo, dall’altro il socialismo di Marx. Queste dottrine risultano in fin dei conti caratterizzate, non solo e non tanto dal fatto di contraddire la presunzione generale in favore del laissez-faire, quanto dalla loro semplice debolezza logica. Sono entrambe esempio di un pensiero povero, e dell’incapacità di analizzare un processo portandolo alle sue logiche conseguenze […]. Il socialismo marxista deve sempre rimanere un mistero per gli storici del pensiero; è difficile capire come una dottrina così illogica e vuota possa aver esercitato un’influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia.❞
Karl provò a intervenire. Stava cercando nel testo di Bentham dei passi che potevano supportare la sua teoria dell’influenza dell’economia di mercato nella nascita del fascismo, ma fu presto interrotto. Alla porta bussò il maggiordomo per informare che la cena sarebbe stata servita entro pochi minuti. John M. fece cenno agli amici di seguirlo e, versando tre scotch disse:
❝Ritengo che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci alla occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa. […] I controlli centrali necessari ad assicurare l’occupazione piena richiederanno naturalmente una vasta estensione delle funzioni tradizionali di governo❞. Ma ora basta». E i tre presero la via della sala da pranzo, in fondo al corridoio.
Il dialogo è stato costruito utilizzando brani tratti da tre opere di tre grandi autori: La grande trasformazione (1944) di Karl Polanyi (1886-1964); La fine del laissez-faire (1926) di John Maynard Keynes (1883-1946); L’anima dell’uomo sotto il socialismo (1891) di Oscar Wilde (1854 -1900).
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