Alemanno, il sindaco che vorrebbe fare il leader nazionale

Alemanno, il sindaco che vorrebbe fare il leader nazionale

Questa proprio non se l’aspettavano. «Sindaco, questo è il governo delle banche, dei poteri forti, del circolo Bilderberg! Come facciamo a sostenerlo! Noi siamo diversi!». È pieno inverno 2011, quando Gianni Alemanno si vede costretto a incontrare la sua base. Sono giorni che su facebook, nei circoli della sua fondazione Nuova Italia, per strada, si moltiplicano le voci di dissenso. Sotto accusa è la scelta di sostegno al governo dei tecnici guidato dall’ex rettore della Bocconi Mario Monti che dovrebbe salvare l’Italia dal default finanziario ed economico. Con l’aggravante che il sindaco di Roma nei giorni convulsi delle dimissioni del presidente Berlusconi, è stato il primo degli ex di Alleanza nazionale a rompere il fronte di chi gridava al complotto e voleva le elezioni.

Alemanno ha un bel daffare per calmare i «suoi», ma – raccontano i presenti – ci riesce. È un copione che conosce bene. Lo ha fatto altre volte. Quando ai tempi della svolta di Fiuggi tutti lo davano con Rauti e lui scelse Fini, quando non seguì il sanguigno Storace nella sua avventura con la Destra, quando invece di rompere con Berlusconi insieme a Fini decise di rimanere nel Popolo della libertà. Ora sostiene il professor Monti, e compie un nuovo scarto. Dicono i «suoi» che Alemanno non è mai dove gli altri si aspettano che lui sia. Qualche volta lo dicono anche i cittadini romani, ma intendono un’altra cosa.

Coniugare questi due punti di vista, sarà la sfida di Alemanno che vuole diventare «nazionale». In un certo senso, conciliare gli opposti non dovrebbe riuscirgli difficile. Il personaggio è abituato. A proposito di dualismo, c’è stato un primo Alemanno movimentista e un secondo istituzionale. Ci sarà un terzo Alemanno? E se sì, il suo destino sarà quello di un pezzo della Destra italiana che non ha rotto con Berlusconi e non ne è stata completamente metabolizzata? Ce la farà questo pezzo della Destra italiana a compiere finalmente il salto a livello nazionale? Su che basi, tali ambizioni nazionali sono fondate?

Senza provare a rispondere a queste domande, se il suo percorso politico non fosse iconico di una vicenda più grande, parlare del Principe – così era soprannominato Alemanno dai camerati della sezione romana del Fronte della gioventù di via Sommacampagna – non sarebbe neanche troppo interessante. Il percorso classico di un militante di destra della Prima repubblica che dopo essersi fatto le ossa senza esclusioni di colpi con la politica, durante gli anni Settanta e parte degli Ottanta, entra nel Palazzo con la caduta dei vecchi partiti e una volta indossata la grisaglia, assume un contegno istituzionale.

Può inoltre essere utile rilevare che a differenza dell’amico/avversario Gianfranco Fini con cui percorrerà pezzi di strada, anche in contrapposizione, il trentaseienne Alemanno entra per la prima volta alla Camera dei deputati solo nel 1994. Insieme a un altro debuttante, anche se di gran lunga più importante (almeno sinora), Silvio Berlusconi. È infatti a seguito della vittoriosa discesa in campo del Cavaliere, che il giovane Alemanno passa da consigliere regionale del Lazio a deputato della repubblica. Siamo nella XII legislatura, la legge elettorale è ancora il cosiddetto Mattarellum, e Alemanno viene eletto con il maggioritario. Ben undici anni dopo Fini.

Da allora il Principe ne farà di strada, alternando periodi di basso profilo ad altri in cui predomineranno le sue caratteristiche di combattente. Così, già durante il primo – breve – governo Berlusconi, con cui non nascose mai una lontananza antropologica e politica, Alemanno non si tirò indietro quando c’era da criticare il capo. Tuttavia fu con il secondo esecutivo Berlusconi (2001-06) che la sua carica «agonistica» esplose. Da ministro delle Politiche agricole rese la vita difficile al Cavaliere e, dopo aver portato alla defenestrazione dell’allora titolare di via XX Settembre Giulio Tremonti, si mise sulle tracce dello stesso presidente di Alleanza nazionale.

Fu quella una delle tante guerre fratricide che si consumarono dentro il fortino della Destra, un conflitto dai tratti personalistici che a molti ricordò – con le dovute differenze – l’altra grande battaglia tra due icone della sinistra: Veltroni versus D’Alema. Spesso un gioco delle parti, fisiologico in politica, ma alcune volte una battaglia vera e propria. Una guerra che ebbe una tregua quando lo stesso Fini diede il via libera alla candidatura a sindaco di Roma. Era la fine del 2005. L’anno successivo Alemanno venne massacrato da un trionfante Veltroni.

Tre anni dopo, complice una campagna aggressiva e una buona dose di casualità, Alemanno ci riprova e questa volta prende la capitale. E si compie una strana metamorfosi. Il lottatore, Lupomanno, altro soprannome che si perde nella notte degli scontri tra fascisti e rossi, si trasforma in un grigio amministratore. Un mistero, considerato il tipo. E anche alla luce di quello che negli stessi mesi iniziò a combinare lo stesso Gianfranco Fini. Che dallo scranno della presidenza della Camera, terza carica dello stato, uno dei massimi vertici istituzionali, prende a bombardare senza farsi troppi problemi di etichetta il quartier generale di Silvio Berlusconi. Con esiti a tratti drammatici e comunque finendo per essere meno ingessato del neo sindaco di Roma.

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