Se il paradiso esiste, ultimamente dev’essere piuttosto affollato di gente dalla grande umiltà. «I familiari dei defunti», racconta Alessandro Bosi, segretario nazionale del Feniof, la Federazione nazionale imprese onoranze funebri, «sempre più spesso ci chiedono un funerale frugale, una bara semplice, pochi fiori, una cerimonia sobria. Dicono che è perché chi è mancato “era tanto umile e avrebbe preferito così”. In realtà, i soldi che girano sono sempre meno e sull’ultimo saluto si cerca di risparmiare. Insomma, si fa economia anche sui funerali, al tempo della crisi…».
«Di noi la stampa non si occupa quasi mai», si lamenta Bosi, 41 anni, bolognese, segretario del Feniof dal 2004 (il segretario viene rieletto ogni tre anni e non c’è un limite massimo di mandati. Unico obbligo: non deve essere un operatore del settore, per evitare conflitti d’interesse). «Sui giornali andiamo solo quando la mela marcia combina guai e scoppia lo scandalo. Penso ai vari casi di impresari di onoranze funebri che si procacciavano i morti negli ospedali, dando mazzette agli infermieri. Purtroppo il decreto Bersani ha portato a una liberalizzazione scriteriata, e in meno di dieci anni gli operatori sono raddoppiati: da circa tremila a oltre seimila. La concorrenza è diventata agguerrita ed è entrata in campo gente improvvisata, che in qualche caso si è comportata in modo scorretto. Mi stupisce, in ogni caso, che si parli così poco di noi, al di là di queste brutte vicende. In fondo, quello del funerario è un indotto importante, che va dal lapideo alla floricoltura, dai carri funebri alle bare, alle urne cinerarie… Muoiono circa 570mila italiani ogni anno. Non siamo certo un settore di nicchia…».
La morte prosegue il suo vecchio lavoro ai soliti ritmi, ma i fatturati di chi gestisce le pompe funebri (il giro d’affari supera abbondantemente il miliardo e mezzo di euro all’anno, con una media a onoranza funebre di circa 2.700 euro) sono in contrazione. La crisi incide sulle tradizioni, accelera i cambiamenti, anche profondi. «La nostra produzione funebre nazionale», riprende Bosi, «è di eccellenza. Ha una qualità che tutto il mondo ci invidia. Ma adesso molti si accontentano di prodotti dozzinali, mentre prima ci sentivamo sempre richiedere il meglio. La crisi gioca un ruolo anche nell’incremento della cremazione. Era nata come approccio filosofico, oggi è spesso un modo per risparmiare. Dovendo incenerirla, spesso si sceglie una bara più economica, ma la vera differenza si ha sulle concessioni cimiteriali. Sono quelle a pesare sul bilancio delle esequie, spesso per oltre la metà. Un posto al camposanto costa ormai, al metro quadro, quanto una villa di superlusso, con la differenza che la villa resta tua, la tomba, invece, è in concessione per un tot d’anni, a seconda del Comune. Con la cremazione non si paga la concessione, ma solo il costo di apertura/chiusura della tomba dove mettere l’urna. E, laddove è permessa la dispersione delle ceneri, neppure questo. Il fatto è che siamo il Paese dei diritti negati, e manca una legge nazionale che regoli il settore. Così, le regioni si sono date leggi proprie, tutte diverse. E molte ancora non hanno legiferato. Un morto emiliano o lombardo è diverso oggi da un morto laziale, siciliano o calabrese. E, per quanto riguarda la cremazione, dalle statistiche la cosa balza subito all’occhio. A Milano, città record, c’è stato lo storico sorpasso: si fa cremare il 65% dei defunti. A Palermo, minimo nazionale, appena lo 0,3%. In Italia ci sono poco più di cinquanta forni operativi, e sono quasi tutti a nord di Roma».
La farraginosa legilazione nazionale è ferma a un dpr (il 285) del 1990, che Bosi definisce «vecchio già allora, figuriamoci oggi». Così ci sono regioni con regole dettagliate e altre senza norme. Le prime a legiferare su funerali e dintorni sono state Lombardia ed Emilia-Romagna. Poi si sono aggiunte il Piemonte, la Toscana, il Veneto, la Campania (che impone corsi di formazione di 500 ore per chi voglia diventare operatore), l’Umbria, la Puglia e altre… Tutto varia, anche nel determinare cosa sia un’impresa di onoranze funebri. Per esempio, l’Emilia Romagna ha fissato criteri severi: serve una sede, un carro funebre, un’autorimessa, un magazzino e, soprattutto, almeno quattro dipendenti stabilizzati (nel settore non è prevista la possibilità di contratti a chiamata, e Feniof, che raccoglie circa 800 operatori privati e che nel 2015 festeggerà i suoi primi cinquant’anni, è fimataria con Cgil Cisl e Uil del contratto nazionale di categoria).
Una legge quadro che faccia ordine nel settore funerario, e che superi la situazione a macchia di leopardo che si è creata, si attende da oltre quindici anni, senza esito. «I colori politici cambiano», dice Bosi, «ma la sensibilità sul tema resta la stessa: zero. Perché? E come perché? Per questioni culturali, scaramantiche. Non troviamo sponde. Nessuno vuole occuparsene. Impossibile avere un proponente legge o un relatore in Parlamento. Ogni volta che andiamo a parlare della questione, vediamo la mano del politico di turno che corre in tasca a cercare la moneta per toccare ferro. Sperando che cerchino la moneta…», sorride amaro. «E poi ci sono gli interessi. La volontà del settore pubblico di mantenere il monopolio su certe strutture, come i crematori e gli obitori, anche se fatiscenti. Poche regioni hanno aperto alla possibilità delle case funerarie private. Che sono un importante volano per la crescita: è questa la vera liberalizzazione da fare».
«Adesso», prosegue, pensando a Mario Monti, «il governo tecnico ha problemi ben più grandi e ben diversi. Sarebbe un’utopia immaginare di arrivare alla legge quadro in queste condizioni di emergenza, visto che non è stato possibile farlo in intere legislature. Ma l’esecutivo potrebbe almeno intervenire e incidere dal lato della tassazione. Purtroppo, tra di noi, ci sono operatori non virtuosi poco propensi a fare fattura. E, in questo periodo di crisi, le famiglie, per risparmiare qualcosa, sono disposte a pagare al nero buona parte del servizio funebre. La nostra proposta è questa: adesso il settore opera in esenzione di Iva, ma la detrazione Irpef delle spese funerarie per le famiglie è molto bassa: il massimo è di 1.540 euro. Noi diciamo: mettiamo l’Iva, magari al 10%, ma alziamo la detraibilità ad almeno 7.000 euro. In questo modo i cittadini avranno interesse a chiedere la fattura e potremo coniugare fisco e sviluppo».
L’altra grande assoziazione di categoria è Federco.f.it, la Federazione comparto funerario italiano. Ha una storia più recente (l’atto costitutivo è del maggio 1999) e ha sede a Milano. Ha più di 450 associati ma non ha rappresentanza a livello internazionale. È infatti la Feniof a portare la bandiera dell’Italia presso la Fiat, la Fédération Internationale d’Associations Thanalogiques. Federco.f.it vorrebbe rappresentare tutto l’indotto e non solo gli impresari di onoranze funebri come fa Feniof, o solo i bronzisti funerari (Assovotivi) o solo le aziende che producono bare (Assocofani)… Le altre associazioni la accusano di rappresentare, in realtà, i grandi gruppi multiservizi.
Il segretario Giovanni Caciolli, fiorentino, conferma il momento di affanno del settore: «Il numero di decessi è stabile. E anzi, nei prossimi anni dovrebbe incrementare. Perché il Paese sta invecchiando e perché sta finendo l’effetto depressivo sul tasso di mortalità della seconda guerra mondiale. Il conflitto, uccidendo allora giovani in gran numero, ci ha infatti privati di una intera leva di morti anziani oggi. Ma il numero di decessi non deve far pensare che il settore mantenga una floridità immutata. Anzi. Il lutto a un italiano non può costare meno di seimila euro. E i soldi sono pochi. Di fronte al continuo aumento della tariffe cimiteriali (l’incremento negli ultimi dieci anni è stato superiore al 100%, e si è passati dalla morte come onere sociale alla morte come onere privato per la famiglia), si taglia dove si può, ovvero sulle onoranze funebri. I segnali di disagio sono forti. Dieci anni fa il pagamento delle esequie era una matematica certezza. Solo uno schifoso, un indegno, poteva non pagare le spese del funerale. Oggi succede sempre più spesso. Non siamo ancora al livello di insolvenza di chi compra automobili, ma quasi. Riscuotere è diventato difficile anche per noi. Adesso, come Federco.f.it, abbiamo firmato una convenzione con il Monte dei Paschi di Siena per il credito al consumo, per incrementare e integrare le capacità economiche delle famiglie. Insomma, un finanziamento per pagare il funerale a rate. Questo è particolarmente importante nelle morti inaspettate. Per l’anziana madre novantacinquenne si è disposti a risparmiare, ma se ti muore in un incidente il figlio di vent’anni, tu vorresti fargli il funerale più bello del mondo, e non potertelo permettere è terribile. E il rischio è che le famiglie si rivolgano a operatori senza scrupoli. L’Italia delle liberalizzazioni e delle autocertificazioni, senza controlli da parte dello Stato, ha dato “licenza di uccidere” a tutti quelli che se ne fregano delle regole e fanno concorrenza sleale. La nostra è un’attività complessa. Servono maggiori controlli. Non è un servizio a cui ci si rivolge di frequente. In media una famiglia ha un lutto ogni 15 anni, quindi è difficile ricordare come funzionava la volta precedente. E anche in ragione delle particolari condizioni emotive si tende a mettersi del tutto nelle mani dell’impresario e a non badare troppo al rispetto formale delle leggi. Oltre ai disonesti, noi denunciamo poi anche la concorrenza sleale legalizzata delle Onlus. Questo vale particolarmente in Toscana, dove Misericordia, Croce Verde e simili hanno oltre il 50% del mercato dei funerali. Sono macchine da oltre tremila trasporti all’anno. Ma loro non pagano le tasse, fanno lavorare i volontari (anche se pagati, sono pagati poco). Insomma, è un vero e proprio esempio di dumping. Senza contare che avendo anche le ambulanze e bazzicando gli ospedali spesso trovano i morti alla fonte».
Presidente di Federco.f.it è invece Beppe Bellachioma, marchigiano. Anche lui conferma il rallentamento del settore, ma non dà la colpa solo alla crisi: «Sono vent’anni che aspettiamo le modifiche legislative che potrebbero farci tornare a crescere. Invece i politici si toccano tutti, non se ne vogliono occupare. Il politico non ha visibilità a occuparsi del nostro settore, anzi. Io dico: va bene che siamo un popolo scaramantico, ma che chi ci governa non legiferi da tutto questo tempoi perché “porta male”, ci dice molto sul livello della nostra classe dirigente. Le Regioni hanno un po’ tappato i buchi, ma ora l’Italia è un arlecchino di diritti. Ci sono zone con buone leggi e situazioni che non esito a definire scandalose, come il Lazio. Dove la stessa persona che gestisce la principale azienda di imprese funebri ha anche cimiteri, ospedali, servizio di assistenza ai malati… Senza che la regione ravvisi incompatibilità o conflitti d’interesse, e senza che la Polverini (che ha tenuto per sé ad interim l’assessorato alla Salute) dia una risposta alle nostre richieste. Se la politica non ci aiuta, anzi spesso rema contro, con le sue lentezze e la sua burocrazia, bisogna rimboccarsi le maniche. Il nostro settore, a differenza di quanto potrebbe sembrare in apparenza, è in evoluzione. Un solo esempio: dieci anni fa non c’era servizio di necroforaggio. Le bare le portavano a spalla amici e parenti. Adesso dobbiamo sempre uscire con quattro spallatori. E comunque, il futuro del nostro mestiere va verso la casa funeraria: gli obitori privati superattrezzati. Questo passaggio darà nuovo impulso al settore, attrarrà nuovi investimenti e darà vita a nuovi posti di lavoro. Ora ce ne sono 40 di case funerarie, quasi tutte in Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, 4 nelle Marche… Il Sud è molto indietro. Comunque in generale, bisogna offrire nuove opportunità e creare nuovi bisogni. Arrivare a una maggiore personalizzazione del lutto».
Ma cosa sono queste case funerarie? Una delle più grandi, moderne e attrezzate è stata aperta il 1° luglio dell’anno scorso a Modena. Si chiama Terracielo Funeral Home. È controllata dalla C.o.f.i.m spa, il cui pacchetto di maggioranza è nelle mani della famiglia Gibellini. Gianni, che ha il 46,76%, è nel mercato delle pompe funebri da 45 anni. Le figlie Daniela ed Elisabetta hanno l’11,25 e l’11, la moglie il 9,71. Poi c’è la Scacf, primaria azienda perugina di bare, che ha il 10. Il residuo 11,28% se lo dividono sei altri soci. «Il posto più bello dove dirsi addio», è lo slogan scelto. E sulla brochure c’è anche un democratico «decoro e dignità per tutti, secondo le possibilità di ciascuno». A descrivere l’attività è il genero di Gibellini, Flavio Zuccolo: «L’avventura di Terracielo è iniziata nel 2001. Ma dopo vari stop per ritrovamenti archeologici, tra cui un leone di pietra uguale identico a quello del Duomo di Modena, ci sono voluti dieci anni per portarla a termine. Ci abbiamo investito 6 milioni di euro. C’è un ampio parcheggio interrato, 35 mezzi per trasporto funebre, tra cui i carri della Maserati. Diamo lavoro a 35 persone. A regime faremo 1.300-1.400 funerali l’anno. La casa funeraria è un luogo pubblico per il commiato molto più bello di un obitorio e con tutti i comfort. All’interno c’è anche un ristorante da 90 posti, per i parenti. Si mangia bene, io me ne intendo: sono un ex ristoratore, avevo tre locali a Bareggio nel milanese. Poi produciamo il vino tipico Terracielo, il nocino e il balsamico. No, “aceto balsamico” non si può dire perché siamo fuori dalla dop, ma è ottimo. L’acetaia l’ha lasciata il nonno di mia moglie. Ci sono sale laiche e una zona per il rito musulmano, con mezzaluna, fontana per abluzioni, portascarpe, e tutte le essenze e i lenzuoli senza orlo che servono agli imam per avvolgere i corpi. E poi c’è una chiesa da 700 posti con telecamere ovunque per riprendere e trasmettere le esequie via web. Anche nella camera ardente abbiamo le telecamere per le riprese a cassa aperta. Mettiamo il caso di parenti lontani, in America o in Australia, che non possono venire ma che vogliono vedere lo scomparso per l’ultima volta… In quel caso abbiamo password dedicate. E facciamo anche dvd. Poi abbiamo sale autoptiche. Anche lì c’è la possibilità di riprese per i medici legali, che vanno su un server dedicato supersicuro. E nove celle frigorifere, una scuola di formazione funeraria tanatoestetica, per la cura e la truccatura dei cadaveri, e il parrucchiere interno, oltre a 600 metri quadri di esposizione di lapidi e marmi. La chiesa da 700 posti è bellissima. Abbiamo il cero pasquale, l’ambone… Presto sarà consacrata. Serve la via crucis e la reliquia di un santo. Dovremmo riuscire a ottenere le reliquie di San Gimignano, ce ne sono molte nel modenese…».
Il settore ha anche le sue fiere, con tanto di belle modelle e hostess di coscia lunga come tutte le fiere che si rispettino. Una delle più grandi è la biennale Tanexpo (thanatos in greco significa morte). L’edizione 2012 si è tenuta a Bologna a fine marzo, con 23mila metri quadri di mostra, oltre 200 aziende espositrici tra italiane ed estere, eventi, dibattiti, workshop. In queste occasioni vengono presentate tutte le novità: nuovi carri funebri, nuove bare, nuove tombe… Ma anche distributori automatici di lumini, fotoceramica resistente alle intemperie (i ritratti nei cimiteri), loculi ossari d’ultima moda, attrezzature cimiteriali, stoffe per il rivestimento dell’interno delle bare, catafalchi, fiori, tecniche di saldatura dello zinco all’avanguardia, manifesti anti acquazzone, innovativi santini con codice QR che, con opportuna app sullo smartphone, permettono di visionare una gallery con decine di foto dell’estinto. Poi c’è la moda settoriale («Il look dell’impresario funebre: eleganza, discrezione e sobrietà»). Gli esperti notano i trend: quest’anno, per esempio, tanti espositori di urne cinerarie per via del boom delle cremazioni. Si va dalla ditta Cassiano che ne propone un modello a forma di pallone con colori e simboli delle squadre di calcio alle raffinatissime in cristallo della ditta ceca Caesar Crystal Bohemiae. Ma anche vari produttori di bare in stile americano (enormi, con il cofano che si apre a metà). In Italia non hanno mai avuto mercato, anche perché vanno modificate, visto che da noi è obbligatoria all’interno una bara in zinco saldato. Ma adesso la richiesta sarebbe aumentata. Lo chiamano effetto Simoncelli. Il Sic, infatti, morto nel gran premio motociclistico di Sepang, è rientrato in Italia dalla Malesia con un feretro di quel tipo. E poi si fa largo, nell’Italia dove la distanza tra ricchi e poveri si allarga, il funerale di superlusso. La GB Funeral Style di Milano, per esempio, nata come ramo d’azienda di una start-up di luxury, personal shopping e consulenza d’immagine, cura nel dettaglio (dalla comunicazione, all’abbigliamento al make up) l’ultima apparizione pubblica dei membri dell’alta borghesia produttiva che vogliono farsi invidiare anche dentro alla bara.
Il Veneto, si sa, è terra di imprenditori intraprendenti e orgogliosi. In ogni caso farà strano, a chi passa per Albettone, provincia di Vicenza, vedere una tomba con su scritto «l’Italia che non muore crea». È la forma di resistenza psicologica alla crisi scelta da Germano Zeccagno, 66 anni ad agosto, titolare della Majestic, ditta specializzata in lapidi e monumenti in marmo e granito per l’arte funeria. Zeccagno è designer (anzi «disainer», perché il suo italiano scritto paga qualche scotto all’ortografia del Nordest produttivo). «C’è grossa crisi», dice. «Una crisi che certamente non parte dal nostro settore, ma che si ripercuote anche su di esso. Io sono un imprenditore e queste cose un imprenditore le sa: se non c’è in giro voglia, entusiasmo, energia, tutto va a ramengo, tutto si fossilizza. Schei in giro ce ne sono pochi, le banche non aiutano chi fa impresa, chi ha i soldi fa più soldi, e chi non ne ha, si attacca. Io se non creo, muoio. Il mio cervello è così. Anche i concorrenti mi riconoscono di aver cambiato il volto dei cimiteri. Ho innovato. Ma ci sentiamo abbandonati. Ci credo poi che gli imprenditori si suicidano. Ormai è difficile anche andare in giro a farsi pubblicità e procacciarsi clienti. Con 100, 150 euro di gasolio per un pieno, non conviene più neanche quello. Lo Stato è buono solo a farci vedere la mannaia del fisco e farci sentire dei ladri, ma controlli non ne fa. Io registro tutto, ma mi copiano selvaggiamente, in Italia e all’estero. Ma non ho protezioni, anche se pago per i brevetti. In Italia ci saranno 5 milioni di ladri e 55 milioni di onesti, ma noi imprenditori ci fanno passare da rubacchioni, invece siamo solo plebe messa alla gogna».
Sempre nel Veneto c’è un’altra azienda importante per il comparto: la Biemme Special Cars di Ospedaletto Euganeo (Padova). Fondata 21 anni fa da Massimo Battistella (figlio di un impresario di pompe funebri che aveva iniziato a rivendere l’usato della sua agenzia) è tra le aziende leader nel mercato dei carri funebri (principali competitor sono le trevigiane Pilato e Zanardo e la modenese InterCar). Regine del mercato sono le Mercedes (circa il 90%), opportunamente modificate. Grande importanza hanno gli optional: luci al led, telecomando per l’espulsione della bara, croce svitabile per atei o per sostituirala con la stella di David in caso di ebrei. Tra le cose più richieste: telecamera per vedere se il corteo di auto segue o si è bloccato nel traffico e radiomicrofono per il prete. È come entrare in un concessionario di lusso. Il venditore è entusiasta nell’illustrare le caratteristiche del mezzo: «Ammortizzatori ad hoc, scocca in vetroresina, con griglia di protezione in caso di ribaltamento. Facciamo anche i crash test. Ci teniamo molto alla sicurezza». E ancora: «Guardate qua. Doppio scarico sportivo. Cromato. Tutti lo vogliono. Ovviamente è falso. Il tubo di scappamento è laterale, se no intossicherebbe il corteo che segue a piedi il feretro…». Lui la spiega così: «L’autofunebre è la prima pubblicità per l’impresario delle onoranze. Una bella macchina si fa notare e resta in mente. Questo è più vero al Nord che al Sud. Su da noi c’è molta attenzione per il carro, giù da loro, mi dicono che l’attenzione è un po’ più spostata sulla bara. E anche i ricarichi, i guadagni delle agenzie, pesano più su quello. In Italia si vuole molto vetro, comunque, sui carri: la bara si deve molto notare. Il contatto ottico dei dolenti con il loro caro estinto è importante».
«L’interenazionalizzazione è difficile perché nel settore cimiteriale ci sono tradizioni diverse da Paese a Paese. Restando alle autofunebri, per esempio, i tedeschi hanno macchine chiuse con le tende, i francesi e gli olandesi usano dei camioncini, gli inglesi macchine molto rialzate. Noi esportiamo qualcosina in Francia, Germania e Svizzera, ma il mercato principale resta quello nazionale: circa cento macchine l’anno». La crisi? «Un po’ si sente. Nel senso che, anche se la domanda non è calata, le macchine che produciamo le diamo tutte in leasing. E con i blocchi al credito qualche problema ogni tanto c’è… E poi è del tutto fermo il mercato dell’usato. Negli ultimi anni, giocando appunto con il leasing, le agenzie non tenevano un carro più di quattro o cinque anni. Adesso i vecchi carri sono davvero difficili da piazzare. Sono aumentate le esportazioni verso l’Europa dell’Est (Polonia, Romania), ma la conseguenza è un abbassamento dei prezzi. Per il resto, non subiamo granché la concorrenza estera, proprio per il diverso tipo di mezzi. Le autofunebri spagnole, per esempio quelle che escono dalle officine della Indusauto Hernández, costano molto meno ma sono troppo spartane per il mercato italiano. Sono buone per i trasferimenti lunghi, non per la cerimonia. I prezzi? Da un minimo di 85mila a un massimo di 130mila, tranne i casi speciali».
Uno dei casi speciali è il carro funebre Rolls-Royce Phantom Hearse B12, costato oltre 500mila euro. Se lo è fatto produrre l’agenzia Marcolongo di Selvazzano Dentro (Padova), gestita dal padre Paolo, che l’ha fondata nel 1974, e dai due figli Davide ed Enrico. Per l’inaugurazione è stato concepito anche un cocktail (gradevole), il B12; un mix di succo di papaya e acqua tonica. I Marcolongo parlano solo in veneto strettissimo e sono un po’ difficili da seguire. Comunque: avevano già un carro Rolls Royce, ma più modesto. Il loro competitor li ha copiati, e loro hanno rilanciato. «Bisogna sempre stare un passo avanti», è la loro filosofia. «Investire per stare in testa. Del resto, da un’operazione del genere otteniamo un forte ritorno pubblicitario. Ci dà una bella immagine pubblica e un forte orgoglio personale»
Il settore che, in questo periodo di crisi subisce di più la concorrenza dall’estero è quello delle bare, «i cofani», come le chiamano i produttori. Sul mercato italiano si sono affacciate, con prezzi sempre più aggressivi, le bare di Cina, India, Guatemala ed Europa dell’Est. Ai padroncini senza scrupoli delle onoranze funebri permettono ricarichi altissimi. La qualità però precipita.
Una delle aziende italiane più grandi (ha il 13% del mercato del nostro Paese) è la Scacf di San Giustino (Perugia). Dà lavoro a 130 addetti e ha messo in piedi anche un grande impianto fotovoltaico. Sforna circa 70 mila cofani all’anno ed è attiva dal 1966, quando la fondarono due amici falegnami, Armando Pecorari e Renato Sgoluppi. La nipote di quest’ultimo, Michela Sgoluppi, è la terza generazione attiva in azienda, dove si occupa di marketing e comunicazione («ma l’università non l’ho fatta», dice orgogliosa, «ho imparato sul campo e fatto qualche corso»). «La crisi? Non l’abbiamo sentita perché siamo stati bravi», spiega. «Bisogna essere rapidi a riorientarsi. Noi abbiamo innovato, andando verso la verniciatura bio, richiesta per legge in alcuni Paesi dove esportiamo e anche in Alto Adige. E prodotto più cofani economici, perché il mercato ci chiedeva quello. Non abbiamo avuto calo di fatturato, ma è cambiato molto il nostro paniere produttivo: abbiamo incrementato la vendita di pezzi di qualità media e la cosa ha compensato il calo di quelli in legno massello più lussuosi e costosi. I prezzi? Nel nostro settore sono assolutamente top secret, perché non vendiamo al dettaglio al cliente ma all’ingrosso alle agenzie, che devono essere libere di farci il ricarico che vogliono».
Ha puntato sull’innovazione, per resistere alla bara low cost che viene dall’estero, anche l’azienda di Gianluca Pacini, di Fossa (l’Aquila). Nel settore da una quindicina d’anni, qualche mese fa ha avuto un’idea: «È morto mio padre e quando mi sono trovato lì, davanti a lui a cassa aperta, avrei voluto prendere qualcosa, tenere un ricordo fisico. Ma non potendo, ho buttato io dentro la casa un a monetina che avevo in tasca. Mi è rimasta la voglia di avere qualcosa che fosse un segno di lui, e ho inventato “scrigno del cuore». Si tratta di una bara da cui si staccano dei cuoricini di legno e che viene fornita con un kit composto da una borsa shopper con 53 scatolette tipo anello. Durante il funerale possono essere distribuiti i 53 cuoricini. Brevettata a livello internazionale, per ora è prodotta in noce, cipresso e in varie colorazioni, tra cui anche in laccatura rosa un po’ in stile Hello Kitty. «Una bella rivoluzione», dice Pierpaolo Calvisi, il direttore della produzione, «in un mercaro tutto sommato statico, quanto a gusti della clientela, come quello dei cofani funebri. Ma un enorme successo di vendite, grazie anche al forte sforzo pubblicitario sui giornali locali di tutta Italia. Il bello della nostra azienda, di 15 dipendenti, è che l’età è bassa (la media è trent’anni) e quindi è particolarmente dinamica, specie nell’Aquila post terremoto, dove tutto sembra fermo alla notte del sisma. Le due parole chiave nel nostro modello di business sono innovazione ed emozione. Il mercato della bara italiano, assediato dal basso costo estero, si salverà solo – e noi ne siamo la dimostrazione – con modelli originali, studiati nel design e dall’alta qualità dei materiali. E con le idee. Idee che contribuiscono a rendere più emozionante il commiato. Per questo ci troverete solo nelle migliori onoranze funebri».
Non mancano le riviste di settore. Le più diffuse sono Oltre, periodico dell’imprenditoria funeraria e cimiteriale, e la più tecnica Isf, I servizi funerari. Poi c’è Eden, bimestrale di attualità e arte funeraria, e non sfigura una giovane nave del giornalismo online: Funerali.org, in vita dal 2004. Anche all’estero le riviste specializzate sono tante e approfondite: l’internazionale Thanos, il francese Funéraire Magazine, la Guía funeraria spagnola, il britannico Funeral Service Journal e molti altri. Ma in Italia la grossa novità è la televisione a tema, partita a marzo su internet e vogliosa di frequenze per sbarcare sul digitale terrestre. Si chiama Funer[tv] e ha dietro le quinte una macchina a suo modo poderosa, tanto che ci lavorano una decina di persone: tre esperti di software che si occupano anche di montaggio e postproduzione, un cameraman, un giornalista e due amministrativi, a cui si aggiungono, nei periodi di fiere ed eventi, quattro hostess.
E per finire la ricognizione nel settore, eccoci alla tanatoestetica, l’attività di trucco post-mortem. In Italia è vietata la tanatoprassi, cioè quell’insieme di tecniche chirurgiche messe in pratica in molti altri Paesi (capofila europea è la Spagna, dove c’è la migliore scuola): dalla legatura della bocca allo svuotamento delle viscere, fino alla vera e propria tassidermia, l’imbalsamazione. Nel nostro Paese possono procedere a imbalsamare solo i medici, non gli impresari di pompe funebri, e la pratica, essendo poco diffusa, è molto costosa. Ed è anche piuttosto avversata, a causa della carenza di posti al cimitero, poiché limita la rotazione. Da noi le concessioni cimiteriali possono essere brevi proprio perché i corpi si decompongono. La durata della concessione dipende dai comuni, ma la media è tra i 20 e i 30 anni. Con periodi più corti al Sud, e più lunghi al Nord (i record di solito in provincia di Udine), per le differenze nella facilità di decomposizione dovute al clima.
La tanatoestetica si occupa dell’aspetto esteriore (spesso le signore lasciano scritte, o con foto, le volontà di come essere truccate e vestite). Karine Pesquera è la franco-spagnola che tiene i corsi di formazione della Scuola Superiore di Formazione per la Funeraria. Insegna tutti i trucchi del mestiere, con lezioni di pratica (anche con l’ausilio di un manichino). Fa vedere come nascondere le piaghe da decubito, come idratare il corpo e disinfettarlo, come ridistendere le giunture irrigidite dal rigor mortis, come suturare le ferite, e come si fa, per i cristiani, a far restare le mani giunte sul petto: con un puntino di colla, di attak.
Sono sempre di più gli impresari che partecipano a corsi di specializzazione per poter offrire servizi migliori alla clientela. Ma a uno dei corsi si è presentata anche una bella donna che, almeno al momento nella vita si occupa di tutt’altro. Si chiama Federica ed è di Forlì. «Ho perso molte persone a me care. Quando è capitato a mia madre, ho chiesto se potevo assistere alla preparazione del corpo e ho appreso che esiste questa procedura della “vestizione privata”. Molti nemmeno lo sanno e non si occupano dei loro cari. Non sanno nemmeno cosa gli succede tra quando muoiono e il funerale. Tutto è cambiato negli ultimi trent’anni. Una volta il morto si teneva in casa e lo si vegliava anche di notte. C’è stata una ospedalizzazione della morte, la si è resa asettica. Molte persone superano i trent’anni senza mai aver visto un morto. Penso che anche la cremazione rientri in questo non sapersi accettare come cadavere. È un voler cancellare se stessi, un rifiutare di vedersi in decomposizione, così come prima molti rifiutano di invecchiare. Quando le persone vanno in visita all’obitorio c’è chi cerca i segni di distensione, magari dopo una lunga malattia, e chi i segni della sofferenza, come per autorassicurarsi: non vedendoli in sé si convincono che la morte sia ancora lontana. Mi piace la cura dei cadaveri. Questo lavoro va fatto con amore. Con passione. Aiuta a superare la paura della morte. A farla tornare normale, come dovrebbe essere. Nella nostra società il tabù della morte ha sostituito il tabù del sesso…».