È legittimo domandarsi se negli altri sistemi solari possa essere mai scoccata la scintilla della vita così come l’abbiamo conosciuta sul nostro pianeta? L’interrogativo più affascinante che ci accompagna da secoli è il tema centrale della conferenza tenuta dall’astrofisica Margherita Hack all’Accademia dei Lincei e intitolata “I pianeti alieni e le probabilità della vita nell’universo”. Un incontro durante il quale la scienziata ha ripercorso le principali conquiste dell’astronomia, scaturite dal desiderio di sapere se quella terrestre costituisca l’unica forma di esistenza nelle infinite galassie di cui è composto lo spazio.
Già i filosofi presocratici greci si erano appassionati al problema, da Talete, il quale pensava che la materia delle stelle fosse identica alla natura della Terra, a Anassagora, sicuro che i segni della vita fossero sparsi nell’universo. In epoca romana, Lucrezio nel suo De rerum naturae riteneva certa l’esistenza di altri pianeti abitati, e nell’età moderna avanzarono una simile ipotesi personalità come Camille Flammarion, Giovanni Schiapparelli, Giacomo Leopardi. Ma è oggi che, dopo avere compreso quali sono gli elementi costitutivi degli astri e come viene creata l’energia per i corpi celesti che gravitano attorno ad esse, sviluppando le intuizioni nate alcuni secoli fa nella mente di Giordano Bruno, possiamo focalizzare la nostra attenzione sui pianeti esterni al sistema solare. La nostra stella rappresenta soltanto “un cittadino medio” della Via Lattea, il fulcro di una regione infinitesimale e periferica della nostra galassia, e per questo motivo è doveroso rivolgere la mente e lo sguardo al di là dei suoi confini.
Scoperti per la prima volta nel 1995, i corpi extra-solari non sono ancora visibili con gli strumenti di cui disponiamo, poiché la distanza dalla loro stella è molto più ridotta rispetto a quella che ci separa da loro. Li conosciamo in forma indiretta e riflessa, grazie all’effetto che essi producono sui propri astri: dalla deformazione che quei corpi riescono a provocare sul movimento e sulle oscillazioni della stella si possono ricavare la dimensione e il periodo di rotazione e di rivoluzione del pianeta. Molti dei corpi individuati finora presentano una grandezza simile o più ampia di Giove, e quasi tutti sono vicini al proprio sole. Ad oggi, osserva l’astrofisica, ne sono state scoperte alcune centinaia: una goccia nel mare se pensiamo che nella sola Via Lattea vi sono 400 miliardi di stelle e nell’universo esistono almeno 100 miliardi di galassie conosciute. Fra tutti i pianeti individuati e tra quelli immaginabili sulla base di calcoli probabilistici possiamo ipotizzare l’esistenza di realtà simili alla Terra, e procedere con estrema cautela per capire se vi sono le possibilità di condizioni adatte allo sviluppo della vita.
Ma quale genere di vita? Risiede proprio qui l’enigma e l’interrogativo più stimolante per gli scienziati, che da decenni si chiedono se l’idea stessa di esistenza coincida e si esaurisca nella forma nata ed evolutasi sul nostro pianeta, basata su elementi quali il carbonio, il silicio, l’idrogeno e l’ossigeno costitutivi della molecola di acqua. Margherita Hack ritiene altamente probabile che le altre specie viventi dell’universo siano costituite da principi, elementi e dinamiche diverse dalla nostra. Una prima risposta al quesito arriverà forse dall’analisi del liquido presente nel fiume scoperto su Titano, uno dei satelliti di Saturno.
Un punto è fuori discussione però: l’aspirazione a entrare in contatto con ipotetiche civiltà aliene è destinato per ora a restare fantascienza. Il perché è semplice: le enormi distanze esistenti fra il nostro pianeta e le galassie che potrebbero essere abitate, e la velocità che abbiamo raggiunto nella navigazione spaziale. Vi è un’unica possibilità, rappresentata dal progetto Seti, Search for extraterrestrial intelligence, operativo dal 1974 in California, grazie al quale diversi radiotelescopi sono stati puntati verso stelle simili al Sole, per trasmettere nel cosmo messaggi rivelatori della nostra presenza e per ricevere tutti i segnali artificiali o di rilievo che dovessero giungere anche in codice. Si tratterebbe certo di un dialogo lento e difficile, visto che fra domanda e risposta potrebbero intercorrere centinaia di anni: e il confronto dovrebbe fondarsi su una comunanza di conoscenze, curiosità, interessi, civiltà. Se tuttavia pensiamo che nell’arco di un secolo sulla minuscola Terra siamo arrivati a capire tanto dell’universo e della sua storia, puntualizza la scienziata, allora possiamo essere orgogliosi di noi stessi e continuare a scrutare il cielo, esaminare, sperare.
La speranza che alimenta la riflessione di Margherita Hack trova risonanza e riscontro nelle parole della matematica Alessandra Celletti, docente di meccanica celeste all’Università di Tor Vergata. Consideriamo che il Sole esiste da cinque miliardi di anni e altrettanti ne deve vivere, contraendosi ed espandendosi ogni giorno: «È grazie a questo movimento incessante che la nostra stella produce e proietta nell’universo gli elementi costitutivi della vita e determina il ritmo armonico dei pianeti, in una delicata alchimia che sembra un miracolo». Per la vita sulla Terra, osserva Celletti, il miracolo deriva dalla giusta gravitazione legata al rapporto fra corpo celeste e sole, dalla presenza indispensabile dell’acqua e dall’atmosfera adeguata che influenza il funzionamento della nostra mente, dall’esistenza di un satellite grande e collocato nel punto adatto per mantenere in equilibrio l’asse del pianeta e le sue stagioni. Viviamo perché deriviamo dalla “polvere di stelle”, dalle tempeste di calore create dal nostro Sole nel corso del tempo. Perché escludere che lo stesso prodigio naturale si ripeta da milioni di anni in altre regioni del cosmo?