CineteatroraNelle mani di Marina: il metodo Abramović a Milano

Nelle mani di Marina: il metodo Abramović a Milano

Il nutrimento dell’arte, pur compressa tra tradizioni stratificate, è per Marina Abramović prima di tutto ciò che oltrepassa i sentimenti comuni. Un ingaggio preciso di tempo e spazio per riunire in empatia antica ed energia vitale pubblico e performer, protagonisti di una ricerca dove l’immateriale della mente decreta il controllo più difficile da sostenere. Non è infatti il corpo il peggior nemico, ma l’ostinazione del pensiero e la sua insistenza, la stessa che procura paure da cui è necessario liberarsi in un costante atto di espansione delle percezioni. Non si tratta di aderire a una terapia new age o a un training di rilassamento, ma attraversare il vuoto e la luminosità, la stasi e il movimento da e per il silenzio.

Questi i nutrimenti di The Abramović method ospite al Pac di Milano fino al 10 giugno: il pubblico viene suddiviso in due gruppi, tra chi osserva e chi sperimenta per circa due ore e mezza cambi alterni tra le tre posizioni da seduti, su sedie in legno che poggiano su cristalli, sdraiati su lettini o in piedi all’interno di una cabina in rame aperta e con un magnete al centro. Ogni partecipante è tenuto a firmare una dichiarazione in cui conferma di abbandonare qualsiasi contatto con l’esterno per tutta la durata della performance. Durata lunga, come dev’essere secondo l’artista di Belgrado perché si eserciti la forza della consapevolezza prestata ora a cedere il bene più prezioso e insieme sfuggente: il tempo, mediato dalle proprietà di minerali provenienti dal Sudamerica e applicati a schienali o posti sotto i lettini. Accanto a ogni sedia ce n’è inoltre una più piccola destinata al riposo dello spirito. L’isolamento è visivo e uditivo mediante cuffie e camici bianchi asettici con il sottofondo di un metronomo che scandisce il criterio del metodo.

L’ennesimo scarto del limite per Marina Abramović che da sempre fa proprio l’estremo “calarsi nel momento” come punto di partenza, sia perché di origine balcanica, dove ogni brandello di storia e sentire è estremo, sia perché si tratta di un bisogno evidente nell’umanità dell’hic et nunc. Un dominio quello di Abramović, quasi una presunzione metodologica che genera perplessità finché non si affonda. Se in passato l’unico tramite e guscio di sperimentazione sembrava essere il corpo, ora l’oltreconfine è l’immanenza di un’artista presente in silenzio a fissare negli occhi il proprio pubblico. Così due anni fa si è svolta al Moma di New York The artist is present, performance epocale che ha visto la partecipazione di migliaia di visitatori e ora il Pac ripropone nella prima sala attraverso schermi multipli su pareti opposte. Volti e razze, uomini, donne velate e bambini intenti a reggere lo sguardo dell’artista immobile per tutto il tempo di apertura e chiusura del museo. Molti i cedimenti, la fatica e l’enigma, il sorriso stanco o il pianto liberatorio dopo poche ore o minuti.

Di quel tentativo a rischio di morte per la complessa resistenza fisica, è testimone il docufilm di Matthew Akers presentato al festival del cinema di Berlino e vincitore del premio del pubblico. La generosità e invadenza del racconto di Abramović – a Milano anche alla galleria Lia Rumma con un percorso di scatti e una scultura tridimensionale – sono il vertice di una ricerca iniziata alla fine degli anni Sessanta. Un iter intrapreso al Centro studentesco di Belgrado, in fuga dalla famiglia partigiana di Tito, da un padre che, pur disconoscendo l’arte, affida Marina a un soldato e pittore astrattista grazie a cui assiste alla prima performance di tele bruciate. La durezza militare respirata anche dalla madre coincide con l’avvicinamento alla body-art come allo strumento più dritto allo stomaco ed emozionale al pari della musica.

Ne nascono sia il legame artistico e sentimentale con il partner di una vita, Ulay, con cui Marina realizza performance storiche come Expanding in space (1977), sullo spostamento per spinta corporea di due colonne portanti e Rest Energy (1980), sulla resistenza di un arco e una freccia in procinto d’essere scagliata – sia la certezza confermata viaggio dopo viaggio di poter contare soltanto sulla propria energia e su come essa vada scambiata con quella del pubblico, protagonista di un completamento essenziale e pericoloso. La prova è a Napoli con Rhythm O (1975) quando Abramović si offre ai visitatori stesa accanto a più di settanta oggetti di tortura o piacere tra cui una pistola carica. La riuscita violenza di quella performance di sei ore fa di lei un’artista specchio degli inconsci più bestiali, una che pur imbevuta della scena racconta oggi di sé attraverso la danza-relazione di Pina Bausch e le definizioni di Joseph Beuys e Bruce Nauman. Così, dopo essersi fatta avvolgere da un serpente, essere sopravvissuta al centro di una stella incandescente, aver usato lamette per incidersene una sul ventre e aver spolpato ossa da macello al vertice di un cumulo di ossa pulite (Balkan Baroque, 1997), ora sente di poter costruire un’eredità. Una pratica “d’amore incondizionato” per chiudere con la mortificazione fisica, con l’abbraccio della vanitas di uno scheletro steso sul suo corpo nudo in una conca, e imboccare strade ancora più impervie come la liberazione catartica e l’elevazione spirituale ispirata a Santa Teresa (The levitation of Saint Therese, 2010).

Separatasi da Ulay dopo aver camminato lungo tutta la Muraglia Cinese (The lovers – The Great Wall Walk, 1988), aver messo in scena la propria vita e morte ogni sei anni per mano di un regista diverso e progettato un funerale in tre bare, Marina Abramović aprirà una fondazione su progetto di Rem Koolhaas per preservare la Performance Art, proseguire il lavoro sui minerali e ospitare progetti di altri artisti. La simbiosi continua e l’ossigeno dell’arte è reso allo spettatore perché nell’esperienza fisico-mentale della performance possa continuare a riconoscere “il movimento nel mezzo del silenzio e il silenzio nel mezzo del movimento”. 

Marina Abramović
The Abramović method

21 marzo/10 giugno 2012
PAC Padiglione d’arte contemporanea Milano
Via Palestro 14
20121 Milano

Orari
lunedì: 14.30 – 19.30
da martedì a domenica: 9.30 – 19.30
giovedì: 9.30 – 22.30

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