«Siamo gli scarti»: noi over 40 senza più un lavoro

«Siamo gli scarti»: noi over 40 senza più un lavoro

Marco ha 54 anni. Da oltre dieci è in cassa integrazione. Dopo aver a lungo lavorato come dipendente di un’azienda romana di servizi informatici, nel 2002 ha perso il posto. Le sue certezze finiranno il 31 dicembre di quest’anno, quando terminerà il periodo di CIG. Dopo lo aspetta la mobilità: risolto il rapporto di lavoro, sarà ufficialmente licenziato. Percepirà un assegno per due, forse tre anni. «Poi non lo so. La situazione è abbastanza preoccupante», ammette con un filo di ironia. Trovare un’altra occupazione? Impossibile. «Sono dieci anni che mando centinaia di curriculum. Non ci crederà, ma finora non ho ancora ricevuto una risposta». La cosa più snervante è proprio il silenzio. «Se uno sapesse che non ha ottenuto il posto perché non è stato convincente durante il colloquio, se ne farebbe una ragione. Se scoprissi che il problema è l’inglese, mi metterei a studiare le lingue». Invece niente. «Sono troppo vecchio, mi hanno tagliato fuori dal mondo del lavoro. E ormai non mi rispondono nemmeno».

Marco occupa il suo tempo collaborando con l’Atdal over40, l’associazione nazionale per la tutela dei diritti dei lavoratori ultraquarantenni. Dà una mano, risponde al telefono. Difende i diritti di oltre un milione e mezzo di italiani. Un milione e mezzo di scarti, come spiegavano alcuni di loro in una videolettera inviata tempo fa al ministro Giulio Tremonti. Sono i lavoratori che hanno perso il posto negli anni della maturità e sono finiti in un limbo. Troppo vecchi per trovare un’altra occupazione, troppo giovani per andare in pensione. Una realtà spesso sconosciuta, che l’Istat non classifica. Ma che solo nel Lazio – stando ad alcuni recenti studi regionali – supera le 250mila unità.

Una condizione che conosce bene anche il presidente dell’associazione, Stefano Giusti. Sociologo, nel 2006 l’azienda per cui lavorava ha chiuso. A 43 anni si è trovato disoccupato. «Cercando un’altra occupazione mi sono reso conto che il mercato del lavoro è una giostra impazzita – racconta – Ormai la professionalità non vale più nulla. Conta solo l’età». Oggi Giusti è riuscito a rientrare nel giro: «Sono diventato un precario dell’università» spiega. Ma non ha messo da parte il suo impegno nell’associazione.

Un dramma sconosciuto. E i numeri del fenomeno rischiano di essere anche superiori alle stime ufficiali. «Molti over40 non si qualificano come disoccupati – spiega Giusti – Magari lavorano tre giorni l’anno, ma preferiscono dire che fanno i consulenti d’impresa». Il problema è psicologico. Si tende a negare, si preferisce non presentarsi nei centri di impiego. «Anche se i quaranta-cinquantenni di oggi avrebbero tutte le potenzialità per aspirare a un nuovo impiego – dice Giusti – Non è più come un tempo, ora quasi tutti possono contare su livelli di istruzione elevati, sanno usare il computer e conoscono la lingua inglese».

Un problema trasversale. Ma a pagare il conto più alto spesso sono gli uomini. «Nessuna distinzione, per carità. Ma talvolta per le donne il passaggio dalla disoccupazione al lavoro casalingo è meno traumatico» spiega il presidente. «Per gli uomini perdere il lavoro equivale a perdere l’identità. Trovarsi disoccupato da un giorno all’altro, in un uomo adulto provoca squilibri psicologici notevoli».

Armando Rinaldi è il vicepresidente di Atdal over40. L’associazione l’ha fondata lui nel 2002. Dirigente Philips, ha perso il lavoro nel 1999, a 51 anni. «Ogni giorno – racconta – ricevo email di persone disperate, che non sanno più dove sbattere la testa». In genere i consigli sono due. «Non isolarsi, mai. E cercare la forza di andare avanti nella propria famiglia». La prima reazione, troppo spesso, è quella di chiudersi in casa. «Mi è capitato di incontrare persone che per nascondere il licenziamento la mattina uscivano come se nulla fosse, fingendo di andare a lavoro». Uomini, donne, senza troppe distinzioni. «Anche se ultimamente – rivela Rinaldi – ho sempre più a che fare con donne sole. Ex lavoratrici relativamente giovani, tra i 45-48 anni. Che improvvisamente non riescono più a mantenere i figli a scuola».

Vicende incredibili, che spesso sfociano in tragedia. «Negli anni almeno una decina di persone mi hanno chiamato per dirmi che erano pronte a suicidarsi» rivela Rinaldi. I dati sono allarmanti. Secondo una recente ricerca Eures, in Italia nel 2009 si sono tolti la vita 357 disoccupati. Uno al giorno. Nel 25 per cento dei casi si trattava di uomini adulti espulsi dal mondo del lavoro. E non ancora riusciti a rientrare. Spesso vittime di una vera e propria discriminazione. Stando ad alcuni dati elaborati dall’Università Bocconi, in oltre il 70 per cento degli annunci di lavoro ci sono delle clausole che limitano l’età richiesta. «Basta sfogliare un quotidiano – racconta Giusti – per imbattersi in una serie infinita di “max 35 anni”, “max 38 anni”». Una pratica diffusa e illegale. Espressamente vietata anche da una normativa europea che l’Italia ha recepito da tempo. Una legge che garantisce la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. «Il paradosso è che un paio di anni fa – racconta ancora il presidente Giusti – anche il Senato bandì un concorso per uscieri, limitando le domande agli under40. Quando chiedemmo spiegazioni si giustificarono dicendo che quello era un lavoro usurante».

I quarant’anni diventano un limite. Oltre quell’età, si diventa inevitabilmente l’anello più debole della catena. «Sono i primi ad essere fatti fuori nelle aziende – dice Giusti – Nei casi migliori si ricorre alle uscite concordate. Altrimenti al mobbing». Spesso a prendere il loro posto sono giovani con minore professionalità, ma contratti di lavoro molto meno onerosi. «E così in Italia si sta perdendo il valore dell’esperienza». E per chi resta fuori la ricollocazione è impossibile. Degli over50 che hanno perso il lavoro riesce a rientrare solo il 4 per cento. Sale l’età e ci si avvicina a quella che è la fascia più debole: gli over55 non più ricollocabili. «Quelli che hanno perso il lavoro da più di 5 anni, disperati, ormai fuori da qualsiasi prospettiva lavorativa», racconta Rinaldi. Stando ai risultati di uno studio del 2008 – portato avanti dall’associazione insieme tecnici del ministero del Lavoro – sono oltre 200mila. «Tutti senza uno straccio di sostegno al reddito – spiega Rinaldi – con davanti almeno 7, 8, anche 9 anni prima di raggiungere la pensione».

Situazioni economiche insostenibili. Anche perché «in Italia solo il 30 per cento dei disoccupati può godere degli ammortizzatori sociali. Il resto si arrangia», raccontano dall’Atdal. E così anche le scelte più normali diventano lusso. «La mia fortuna – ammette il vicepresidente Rinaldi – è stata quella di non aver avuto figli. Altrimenti quando ho perso il lavoro non so proprio come avrei fatto».

Oggi l’associazione presieduta da Stefano Giusti opera su due livelli. Sul versante politico organizza mobilitazioni, studia iniziative. Pochi giorni fa, ad esempio, con l’aiuto del deputato Idv Giovanni Paladini è stata presentata un’interrogazione alla Camera su questo tema. Ma offre anche assistenza. «Ci occupiamo di sostegno individuale» spiega il presidente. Gli over40 che perdono il posto vengono accolti, si lavora all’orientamento. Vengono indirizzati negli uffici giusti. «Spesso chi diventa disoccupato in età adulta non sa neppure cosa fare».

E il governo? Al momento non sembra essere troppo coinvolto. Atdal ha chiesto più volte un incontro con il ministro del Welfare Elsa Fornero. «Perché come associazione non facciamo solo proteste, ma presentiamo anche dossier e proposte» mette in chiaro Giusti. Per ora nessun vertice. A metà marzo era stata anche fissata una data, poi l’appuntamento è saltato. «La stessa mattina la segreteria del ministro ci ha gentilmente avvisato che l’incontro era stato congelato», raccontano. Alle numerose sollecitazioni, nessuna risposta concreta. «Continuiamo a chiamare, ci dicono che la nostra organizzazione è ancora inserita nell’agenda del ministro Fornero. Ma finora niente». «La vicenda è molto strana – ammette il vicepresidente Rinaldi – A questo punto temo che il ministro non ci richiamerà mai».  

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