Pagare le tasse non piace a nessuno, né oggi, né un tempo, e infatti già nel Medioevo si cercava proprio di non pagarle. L’unico ente che riusciva perfettamente nel suo intento era la Chiesa: le decime giungevano da ogni angolo dell’ecumene cattolico che, prima degli scismi vari, era molto più ampio di quello attuale. Così dalla Groenlandia arrivavano denti di narvalo – che venivano regolarmente presi per corni di unicorno – dalla Polonia pellicce di martora, dal Baltico ambra, dal Medioriente vino e olio. Servivano personaggi in grado di valutare questi beni con un criterio univoco e riportare tutte le valute a una sola, utilizzabile e spendibile a Roma. È da lì che vengono fuori i primi banchieri: gestire la Camera apostolica è sempre stato un business colossale, dai senesi Bonsignori nel Duecento a monsignor Marcinkus in tempi più recenti.
Gli Stati e staterelli dell’epoca, invece, piacerebbero parecchio ai liberisti dei nostri giorni: erano “leggeri”, poche sovrastrutture, molti servizi dati in appalto ai privati, si accontentavano di incassare tasse e gabelle, principalmente dazi sui beni importati. Ma ogni tanto, anzi, piuttosto spesso, si ritrovavano a fare una qualche guerra e combattere era una faccenda maledettamente costosa. Quindi bisognava trovare nuove risorse. Ma di tasse le classi dirigenti di allora non volevano sentir parlare, e siccome gli Stati più importanti dell’Italia medievale (Genova, Firenze, Venezia) erano guidati da mercanti, erano loro a dettare l’agenda. Niente tasse, ma “prestanze”, debito pubblico insomma.
Le conseguenze di questo crescente indebitamento sono state spesso devastanti. Genova, per esempio, dopo la più importante guerra con Venezia perde la propria indipendenza. La sconfitta dei genovesi a Chioggia (1381) precede solo di poco la sottomissione alla Francia (1396) e la riforma del debito pubblico, con la creazione della Casa di San Giorgio (1408) quella che viene considerata la prima banca pubblica italiana. I genovesi si ritrovano pieni di titoli di debito pubblico e pure sconfitti, così sono costretti a convertire un gran numero di debiti a un tasso minore; li unificano in un solo corpo di titoli uniformi, detti “luoghi”, e i loro proprietari si riuniscono in un consorzio (Casa di San Giorgio) a cui viene assegnata la riscossione di un certo numero di imposte perché ne ripartisca il gettito tra i possessori dei titoli di debito.
Anche Firenze per finanziare le numerose guerre del periodo ricorre alle prestanze, che potevano essere forzose o volontarie. Ma il debito fluttuante sale e livelli tali che il suo consolidamento appare l’unica soluzione possibile.
Una legge varata il 29 dicembre 1343 ordina che tutte le obbligazioni non rimborsate vengano consolidate e siano registrate in un libro mastro del debito pubblico. Pochi mesi dopo un altro decreto stabilisce la trasferibilità dei crediti segnati in questo libro e assegna al beneficiario il diritto a un interesse del 5 per cento. Nasce così, tra il 1343 e il 1345, il Monte Comune, cioè il debito pubblico fiorentino. I teologi cominciano subito a disputare se si possa o meno comprare o vendere titoli del Monte Comune: i francescani dicono di sì, i domenicani e gli agostiniani sostengono che non sia possibile. La controversia teologica non impedisce il sorgere di un mercato di “luoghi” del Monte Comune, ovvero di titoli pubblici.
Tutto va bene per alcuni anni, ma quando il debito pubblico aumenta, diventa sempre più difficile pagare puntualmente gli interessi e quindi la mancata liquidazione delle “paghe” dà origine a un mercato dei titoli d’interesse che precipitano sempre più in basso, fino ad arrivare al 20 per cento nel 1458.
Ma Firenze continua a far guerre, soprattutto contro Milano, e le prestanze sono solo una goccia nel mare. Bisogna che qualcuno si metta a pagare le tasse e così, nonostante la dura opposizione dell’oligarchia mercantile, nel 1427 viene istituito il catasto che riunisce le caratteristiche dell’imposta sul reddito e dell’imposta fondiaria.
L’iscrizione al catasto è obbligatoria, ma l’ammontare dei beni è basata su dichiarazioni individuali, le cosiddette “portate”, presentate dai contribuenti agli esattori o ai funzionari del catasto. È necessario allegare una copia dell’ultimo bilancio di ogni compagnia o azienda di cui il denunciante sia socio. Un signore di nome Niccolò Machiavelli coglie la portata innovativa del catasto perché si basa sull’effettiva capacità contributiva di ognuno, mentre il sistema di imposte precedente era fortemente regressivo. Comunque anche il catasto continua a favorire largamente i ricchi. L’abitazione del contribuente è esente da tassazione, anche se si tratta di un palazzo con inestimabili tesori d’arte, come nel caso dei Medici, degli Strozzi, o quant’altri.
Ma non dura: il catasto fiorentino viene abolito nel 1494, poco dopo la caduta dei Medici, e sostituito dalla decima, che resta in vigore fino a tutto il Settecento. La decima è un’imposta sulla sola proprietà immobiliare e quindi esclude i titoli del Monte Comune nonché gli investimenti commerciali e industriali.
Tasse poche, insomma, e possibilmente da far pagare ai poveri, a quelli che non possono più di tanto ribellarsi perché non hanno rappresentanza politica. Va avanti così in tutti gli Stati italiani di antico regime e la vera svolta arriverà solo, nel Lombardo-Veneto, con l’introduzione del catasto austriaco: allora sì che si dovranno pagare le tasse e saranno dolori, dolori veri per chi, per secoli, si era abituato a fregarsene allegramente della finanza pubblica.
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