In una recente intervista a La Stampa il Ministro dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi, intervenendo sulla prossima scadenza del mandato di Alain Elkann alla presidenza della Fondazione Museo Egizio di Torino, ha affermato di aver individuato il successore in Evelina Christillin. Scelta dettata da molti motivi, «non ultimo per le sua capacità nel fund raising», ha spiegato il Ministro. La questione meriterebbe un tentativo di approfondimento, qualche timida riflessione.
I musei in Italia hanno poche occasioni per fare notizia. Per finire sulle pagine dei quotidiani, o addirittura nei servizi giornalistici di qualche network, non sono sufficienti collezioni antiche e moderne, spesso di valore quasi irraggiungibile. Né, tanto meno, nuove acquisizioni, siano esse relative ad oggetti, materiali o qualsivoglia elemento d’arte capace comunque di accrescere, ancora, l’offerta di una struttura. E tanto meno ancora, l’avvicendamento ai loro vertici dei direttori. Di solito studiosi riconosciuti, non di rado anche a livello internazionale. Gente che nella maggior parte dei casi ha costruito la sua fama su solide ricerche, un’attività scientifica pluriennale, esperienze anche diversificate. Il tutto certificato da curricula che ne fanno, a tutti gli effetti, esperti del settore che andranno a dirigere. È cosi quasi ovunque da noi. Lo è anche a Torino, al Museo delle Antichità Egizie.
Ma qui, accanto alla Direttrice del Museo, esiste anche un Presidente, a capo di un Cda, costituito da 14 persone, suddivise in Consiglieri e Collegio dei revisori dei conti, oltre ad un vice-Presidente, che assicura il buon funzionamento di una Fondazione.
È dall’ottobre 2004 che la Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino è stata costituita dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che le conferisce in uso per trent’anni i propri beni, insieme con la Regione Piemonte, la Provincia di Torino, la Città di Torino, la Compagnia di San Paolo e la Fondazione CRT. La Fondazione, che rappresenta il primo esperimento di costituzione, da parte dello Stato, di uno strumento di gestione museale a partecipazione privata, trova ragione della sua esistenza in quanto si può leggere sul sito ufficiale, online. Viene detto: «si propone di accogliere gli standard internazionali dell’ICOM ripresi anche con decreto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e di adottare come guida del suo operato verso il Museo Egizio la definizione ICOM del museo …».
I risultati di questo esperimento, elencati ancora nel sito online tra le “Iniziative” promosse, che vanno dalla «riqualificazione del percorso museale» e «l’allestimento temporaneo dello Statuario, a cura di Dante Ferretti», al «percorso di piante nel Museo, a cura dell’architetto paesaggista Paolo Peyrone», all’introduzione «di nuovi servizi per una migliore accoglienza dei visitatori», hanno riguardato anche la «sostituzione dei supporti dei reperti», la «pubblicazione di guide bilingui per il museo», le «didascalie bilingui nelle sale del museo» e la «promozione del Museo attraverso varie iniziative». Risultati, quelli ottenuti nel corso della gestione Elkann, che, nel loro complesso, al di là dei singoli interventi, secondo Ornaghi, hanno permesso al Museo di assumere una fisionomia «più funzionale». Trasformando «i ricordi bui e oppressivi, specie davanti alle mummie, delle visite da bambino», in qualcosa di molto diverso. «Un luogo magico, splendido, gestito con criteri moderni, giudizio che vale per tutto il sistema museale piemontese».
Il Museo egizio di Torino, come quello de il Cairo, dedicato unicamente all’arte e alla cultura dell’Egitto antico. È un gioiello, uno dei tanti che l’Italia si trova, non sempre degnamente ad amministrare. Il sovrapporsi temporale delle sue acquisizioni, la genesi e il procedere della sua realizzazione, raccontano anche una storia italiana, nella quale passione, capacità, progettualità e ricerca trovano un esito felice.
Tra il primo oggetto giunto a Torino, la Mensa Isiaca, una tavola d’altare in stile egittizzante realizzata probabilmente a Roma nel I secolo d.C. per un tempio di Iside, acquistata da Carlo Emanuele I di Savoia nel 1630, e l’ultima acquisizione importante del Museo, il tempietto di Ellesija, donato all’Italia dalla Repubblica Araba d’Egitto nel 1970, per il supporto fornito durante la campagna di salvataggio dei monumenti nubiani minacciati dalla costruzione della grande diga di Assuan, quella storia si concretizza.
Persone, sia rappresentanti delle “Istituzioni” che del “sapere tecnico”, luoghi e oggetti contribuiscono nell’arco di un lungo periodo a realizzare un grande museo. Carlo Emanuele I di Savoia, Vittorio Amedeo II di Savoia, Carlo Emanuele III di Savoia, Carlo Felice di Savoia, mecenati di un’operazione e, per la parte “scientifica”, Vitaliano Donati, Bernardino Drovetti, Jean-Francois Champollion, Francesco Barucchi, Pier Camillo Orcurti, Ariodante Fabretti, Francesco Rossi, Ridolfo Vittorio Lanzone, Ernesto Schiapparelli, Giulio Farina, fino a Eleni Vassilika. Nomi che forse per chi presiede la Fondazione, per chi ha provveduto a fare del Museo «un luogo magico, splendido» come Elkann e per chi, come la Christillin ha riconosciute «capacità nel fund raising», evocheranno assai poco. Nomi lontani. Polverosi cimeli dimenticati in un magazzino.
Il problema è forse lo stesso di sempre in Italia. Almeno in tema di Beni Culturali e di strutture Museali, nello specifico. Un problema che non conosce soluzione capace di una efficace mediazione tra due estremi che continuano a guardarsi da lontano con molta diffidenza. Non di rado, senza quella collaborazione che, invece, ne farebbe parti ugualmente vitali di un tutto in pericolo. Da un lato il problema è che, in fondo, in mano ai tecnici del settore, strutture anche prestigiose, spesso, sono incapaci di garantirsi una decorosa sopravvivenza. Soffocate da spese, anche di semplice gestione, di molto superiori ai guadagni, assicurati dagli ingressi.
Dall’altro il problema ha le sembianze di figure esterne, di manager, la cui mission è, anche quando come nello Statuto della Fondazione del Museo Egizio si afferma che «non ha fini di lucro e non distribuisce utili» quella di produrre risorse. Tra i due contendenti, egoisticamente su fronti contrapposti, c’è il Bene: il Museo.
Se le Fondazioni, a Torino come altrove, sono funzionali a garantire la vita della struttura, a sorvegliare sulla sua amministrazione, ad essere lo spot in grado di catalizzare interesse e quindi, risorse economiche, è più che legittimo che esse nascano, esistano, si consolidino. Diventino un paradigma. Con queste premesse è auspicabile che ai vertici vengano chiamate dal Ministero personalità senza competenze specifiche ma capaci di fund raising. Anche se al funzionamento di una macchina articolata che può contare nel sul insieme su 14 personalità, concorrono materialmente anche Regione, Provincia e Comune, cioè partner tutt’altro che privati. Partner che comunque hanno ciascuno una propria quota parte da rivendicare nei differenti organi nei quali si suddivide la struttura della Fondazione.
Risulta invece assai più difficile da giustificare, nell’ottica del merito e delle competenze, l’interesse in questioni riguardanti il percorso museale e l’allestimento dello Statuario. Questioni che non sembra azzardato ritenere più proprie di chi cura (o, dovrebbe curare?) gli aspetti scientifici del museo. L’osmosi tra competenze diverse, l’interdisciplinarità, sono necessari, anzi vitali. La matrioska dei saperi nasconde sempre qualcosa. Fa perdere qualcosa. C’è sempre “un più grande” che racchiude un “più piccolo”.
L’errore probabilmente, anche in questo caso è nell’approccio. Nel considerare qualcosa (o qualcuno) “più grande”, più capace di realizzare un progetto, di far funzionare una struttura. Insomma la Fondazione può essere, è, utile al Museo. D’altra parte senza Museo, la Fondazione, forse, non esisterebbe. L’importante è che ciascun attore lavori su quel che sa. Solo in questo modo può trovare ragione che a presiedere la Fondazione sia un “illuminatore di luoghi” o una fund raising.
Perché, a dispetto di tutto e di tutti, bisogna ricordare che il Museo delle Antichità Egizie non è un semplice Museo. Come scrisse, forse po’ snobisticamente Champollion, quando giunse in città nel 1824 per dedicarsi allo studio delle sue collezioni: «La strada per Menfi e Tebe passa da Torino».