Il cotone bio? Inquina più delle altre fibre, e rende meno

Il cotone bio? Inquina più delle altre fibre, e rende meno

Una partita con continui colpi di scena quella tra tessuti bio e chimici. Sembra infatti diminuire il punteggio che assegna al biologico la coppa per il minor impatto ambientale. E intanto scala la classifica il concetto del riciclato. 

«Se guardiamo alle fibre all’avanguardia della sostenibilità, attualmente la parola chiave non è bio ma riciclato», spiega Marco Ricchetti, docente di Economia della moda allo Ied di Milano. «Il più autorevole benchmark ambientale delle fibre – quello della organizzazione no-profit olandese Made-by – colloca in classe A (fibre a minore impatto ambientale) il cotone riciclato, il poliestere e il nylon riciclati meccanicamente, la lana riciclata, la canapa e il lino, entrambi bio». Dunque sono particolarmente indicative le fibre di questa prima classe perché si trovano sulla stessa lunghezza d’onda due fibre naturali riciclate, due fibre chimiche (sintetiche) riciclate e due fibre bio. Il cotone biologico compare invece nel gruppo che segue (classe B) insieme al «lyocell (una fibra chimica cellulosica), al poliestere e al nylon riciclati chimicamente. Il poliestere vergine si trova in classe D, mentre il cotone a coltivazione convenzionale, la lana vergine, il nylon vergine e le viscose si trovano nella classe peggiore ovvero la E».

A vantaggio del cotone biologico ci sono la significativa riduzione nell’uso di pesticidi e la giusta remunerazione dei coltivatori soprattutto nelle regioni dei Paesi più poveri. Tuttavia, sottolinea Ricchetti, «il cotone bio ha una performance ambientale tendenzialmente peggiore rispetto al cotone convenzionale (e a maggior ragione rispetto al poliestere) per quanto riguarda l’uso del terreno e i consumi di acqua. Inoltre, attorno al tavolo delle discussioni gravita la resa delle coltivazioni biologiche (kg di raccolto per ettaro coltivato)».

I sostenitori del cotone bio argomentano che appropriate tecniche possono ridurre il gap di rendimento rispetto al cotone convenzionale, «il consumo di terra coltivabile del bio sarebbe quindi di poco superiore a quella del convenzionale. Altre fonti indicano una resa inferiore di almeno il 15-30% rispetto al convenzionale», implicando quindi, a parità di raccolto, un fabbisogno di terra coltivabile decisamente maggiore. La stessa diversità di posizioni si trova anche in riferimento al consumo d’acqua, emergenza ambientale particolarmente sentita in molti Paesi. «Riguardo agli indicatori di utilizzo delle terre coltivabili e di uso delle risorse idriche, il vantaggio delle fibre chimiche è – per Ricchetti – indiscusso. Il discorso cambia se vergini (prodotte ex novo con il processo di sintesi), perché sono forti consumatrici di energia e c’è il ricorso a sostanze chimiche anche potenzialmente tossiche o pericolose (in particolare nelle viscose). Le fibre sintetiche di poliestere, acrilico, nylon sono per giunta prodotte da fonti non rinnovabili come il petrolio».

Che fine fa quindi la tanto osannata sostenibilità nei tessuti naturali? Dipende dalla fibra, dal contesto agronomico in cui si produce e dal prodotto tessile che si vuole ottenere.
«Per quanto riguarda le fibre tessili naturali prodotte con metodo biologico, queste senza ombra di dubbio, sono nettamente più sostenibili di quelle convenzionali e/o ogm», commenta
Giuseppe Garcea, product certification branch dell’Ente di controllo e certificazione biologica Ccpb srl. Prosegue richiamando i molteplici fattori da considerare quali «minore densità di semina, minore richiesta di acqua, minore richiesta di input produttivi, divieto di utilizzo di concimi e prodotti fitosanitari di sintesi, mantenimento della sostanza organica del terreno, maggiore biodiversità per ettaro, assenza di problematiche presenti nel tradizionale e ogm (assenza di dipendenza dalle multinazionali, possibilità di risemina nell’anno successivo, raccolta manuale senza disseccanti), parziale indipendenza dell’agricoltore dall’oscillazione dei prezzi delle commodities e maggiore benessere delle comunità».

La chiave del discorso sulla sostenibilità sembra risiedere in alcuni indicatori, ovvero acqua, suolo, impatto eutrofizzante e acidificante, global warming. Ci sono notevole differenze tra fibre, processi di coltivazione e manifatturieri correlati. «Ad esempio – sottolinea Garcea – tra le più ecologiche c’è la canapa ma i vantaggi ambientali della parte agricola si elidono nella trasformazione industriale in cui i processi manifatturieri devono, a causa della notevole presenza di cellulosa, essere molto intensivi».

A complicare il panorama interviene il progresso tecnologico. Nelle fibre chimiche si stanno introducendo processi produttivi a minore impatto ambientale. Marco Ricchetti richiama le viscose dove «i processi sono a ciclo chiuso – come per il lyocell – e importanti passi in avanti si registrano nel campo del riciclo, anche post-consumo, soprattutto del poliestere e del nylon. Sempre nel campo delle fibre chimiche, ma con volumi ancora contenuti, è in grande fermento il settore dei biopolimeri, con nuovi materiali da fonti rinnovabili in molti casi compostabili».

C’è poi il volume della produzione, che non è il punto forte del cotone bio. Per l’esattezza la produzione mondiale ammonta a 250mila tonnellate, pari a circa l’1% della produzione totale di cotone, in altre parole meno dello 0,4% della produzione mondiale di fibre. «Anche in caso di crescita sostenuta  – constata Ricchetti – difficilmente raggiungerà una quota significativa dei consumi di fibre superiore al 2-3% (5-6% del consumo totale di cotone)». Il mercato del cotone bio va dunque considerato una sorta di fondamentale laboratorio avanzato in cui si sperimentano tecniche di coltivazione che rendono più efficiente la produzione, che definisce un termine di paragone per tutte le fibre tessili, «uno stimolo per l’innovazione e un fattore di promozione dei principi della sostenibilità presso il grande pubblico. Con l’accortezza di non sopravvalutarlo come reale alternativa alle altre fibre o di distogliere l’attenzione da quelle innovative – sia naturali che chimiche – del tessile sostenibile».

La sostenibilità non è un punto d’arrivo ma un viaggio. Non ci sono tessuti sostenibili e tessuti non sostenibili, ogni tessuto, con l’applicazione delle migliori tecnologie di processo o con nuovi metodi di produzione delle fibre, può essere reso più sostenibile di quanto non lo fosse in precedenza.  Il caso del tessuto denim sul banco degli accusati per l’elevato impatto ambientale, è quello più intuitivo. «Per il denim si utilizza cotone (fibra di classe E), per la tintura con l’indaco si fa ricorso a sostanze chimiche inquinanti, per ottenere l’effetto invecchiato viene spesso utilizzata la tecnica del sandblasting, un potente getto di cristalli di silicio che può generare gravi danni alla salute dei lavoratori», spiega Ricchetti.
Saranno quindi sostenibili i jeans che adottano le migliori e più sostenibili tecniche per soddisfare la domanda dei consumatori, ovvero quelli che ottengono l’effetto invecchiato con tecniche diverse dal sandblasting , oppure jeans che utilizzano tinture con indaco naturale, o ancora che combinano cotone con altre fibre più sostenibili (ad esempio il tencel) o utilizzano mix con una parte di cotone bio».

Ultime ma solo in ordine di elenco la manutenzione e lo smaltimento dei capi di abbigliamento. La maggior parte dell’impatto ambientale di un capo di abbigliamento non deriva dal suo processo di produzione o dalle materie prime che utilizza, ma da come viene trattato dal consumatore e da come viene smaltito a fine vita. L’energia utilizzata per lavare, asciugare e stirare i nostri capi di abbigliamento è pari a circa il 40% di tutte le emissioni di gas serra prodotte durante l’interno ciclo di vita del capo, che va dalla coltivazione delle materie prima all’uso quotidiano.

Fonte: BSR, Apparel Industry Life Cycle Carbon Mapping, 2009  

Lo smaltimento dei capi di abbigliamento è un’altra componente essenziale dell’impatto ambientale della moda. Ricchetti richiama uno studio inglese di qualche anno fa che stimava, per la sola Inghilterra, i rifiuti post-consumo prodotti dai capi di abbigliamento a 2,5 milioni di tonnellate annue, di cui solo il 13% erano recuperate mentre il resto prendeva la via degli inceneritori o delle discariche. Se si tiene conto dell’impatto ambientale che deriva dall’uso degli abiti da parte del consumatore, infine, «si comprende come un tessuto sostenibile è un tessuto che può essere lavato a basse temperature, che non richiede di essere stirato e che può essere facilmente riciclato». 

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