Passeggiando per le sale del Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara non è possibile non rimanere incantati di fronte ad una delle maggiori attrazioni di quello spazio espositivo. La serie di rilievi monumentali dell’arte neo-hittita, databili tra gli inizi del X e la fine dell’VIII secolo a. C., scoperti nel secondo decennio del Novecento, a Karkemish.
Con i suoi 90 ettari di superficie, vicino alla frontiera turco-siriana, sulla sponda ovest dell’Eufrate, Karkemish è molto più di un semplice sito archeologico. A pieno titolo uno dei luoghi mitici dell’archeologia orientale. Identificato dall’assirologo inglese G. Smith nel 1876, venne indagato tra il 1911 e il 1914 da una missione del Museo Britannico di Londra, condotta da Leonard Woolley e Thomas Lawrence. Rimasto a lungo inaccessibile perché divenuto installazione militare e poi addirittura minato, a partire dal 1956, il sito, sminato nell’anno trascorso, stato restituito alla ricerca e alla fruizione da una decisione delle Autorità culturali della Repubblica Turca.
Circostanza questa che ha consentito, tra settembre e novembre, il riavvio delle indagini archeologiche a cura della Missione congiunta turco-italiana delle Università di Bologna, Gaziantep e Instabul, sotto la direzione di Nicolò Marchetti, dell’Ateneo bolognese. Il nuovo progetto di ricerca intende riportare alla luce fondamentali monumenti della grande città neo-hittita degli inizi del I millennio ed impostare uno studio sui sottostanti resti dell’importante centro urbano del millennio precedente. Con l’ambizione di creare, per l’autunno del 2014, un Parco archeologico che dovrà andarsi ad integrare con il Parco ambientale dell’area dell’Eufrate.
Ricordato già nei testi di Ebla attorno al 2300 a. C. come un centro non secondario, Karkemish fu sede di un importante regno amorreo nell’età di Hammurabi di Babilonia intorno al 1800 a. C. Verso il 1350 a.C., ad opera di Suppiluliuma I, creatore dell’impero ittita in Siria, divenne la residenza dei viceré che controllarono in nome dei signori di Hattusa per poco meno di due secoli tutta la Siria settentrionale. Quando nei primi anni del XII secolo a.C. l’impero hittita si dissolse, i re di Karkemish ne assunsero l’eredità, divenendo così uno dei maggiori principati dell’area siro-anatolica. Almeno fino al 717 a.C. quando Sargon II conquistò e distrusse la città, trasformandola nella sede di una provincia assira. Nel 605 a.C. fu proprio a Karkermish che l’esercito egiziano fu travolto e messo in fuga da Nabucodonosor, futuro re di Babilonia.
Per questo suo sovrapporsi di impianti, la Pompei d’Oriente, promette di rivelare meraviglie. Le nuove indagini archeologiche hanno proprio questa, più che legittima, ambizione. Di passare dalla fase romana a quella assira e poi a quella primitiva. Di scendere al di sotto del lastricato delle vie romane sulle quali si può ancora transitare e delle fondazioni degli edifici differenti che vi affacciano. E i risultati della prima campagna di scavi, presentati il 26 gennaio in occasione di una giornata di studi presso il Dipartimento di archeologia dell’Università di Bologna, indiziando come la lunga attesa da parte degli studiosi di questo ambito geografico possa per certi versi ritenersi premiata, lasciano intuire un cospicuo incremento delle conoscenze.
Nei cinque cantieri aperti, dati importanti sono già stati ottenuti nell’area dei due maggiori templi scavati da Woolley, compreso il Tempio del dio della tempesta, dove è stata trovata una statuetta in bronzo e argento della divinità e numerosi resti frammentari di sculture e di iscrizioni hittite geroglifiche. Sono venuti alla luce anche enormi edifici scolpiti, un’intera necropoli all’interno delle mura della città, con tombe dai ricchi corredi dell’élite urbana. A circa 3 metri di profondità sono stati raggiunti i livelli con cenere, resti bruciati e travi carbonizzate, che documentano la conquista di Sargon ed il saccheggio.
Ma ancor più che non le strutture, a rendere entusiasti gli archeologi, e soprattutto il professor Marchetti, che l’ha individuata mentre camminava in direzione dell’acropoli, è il ritrovamento di una grande stele basaltica, intatta, con simboli astrali alla sommità, ricoperta da diverse linee di un’iscrizione reale hittita geroglifica, decifrata da David Hawkins della British Academy. La stele è dedicata da Suhis “signore del paese di Karkermish” a Ura-Tarhunza “gran re del paese di Karkemish”, figlio di Sapazitis e testimonia di un singolare dualismo istituzionale nella regalità della città. Ma documenta anche sulla fondazione ad opera di Suhis I di una nuova dinastia della città agli inizi del X secolo a. C.
Ma la perizia e la pazienza degli archeologi, è riuscita ad andare ben oltre la materialità delle strutture e dei tanti materiali recuperati nel corso delle indagini. I botanici sono riusciti ad identificare piante rare ed una specie di pioppo che si riteneva estinta, contribuendo alla ricostruzione anche dell’ambiente naturale del sito. Dimostrando ancora una volta come l’altissimo grado di specializzazione delle differenti discipline afferenti all’antichistica siano in grado non soltanto di scavare “cose”, seconda la pratica settecentesca ed ottocentesca degli scavi di antichità, ma di vivisezionare in maniera scientifica porzioni di terreno, recuperando qualsiasi tipo di informazioni possibili.
Così mentre molti siti italiani sopravvivono appena, distrutti pian piano nella quasi totale indifferenza, mentre schiere di archeologi, giovani e meno giovani, stanchi dell’incertezza quotidiana provano a cambiare mestiere, entrambe storie di calpestata dignità, un racconto che finalmente ci inorgoglisce. Grazie a un team emiliano che ha ripreso gli scavi e l’ha tolta dall’oblio, Karkemish può rinascere. Gli italiani da export continuano a “funzionare”.