Quando, lo scorso 24 aprile, il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha accusato il Sudan di Omar al Bashir di «avere dichiarato guerra» al suo Paese, dopo settimane di incidenti di frontiera e la fallimentare occupazione, da parte dei meridionali, del distretto petrolifero di Heglig, si trovava in Cina, di fronte al presidente Hu Jintao.
Un incontro non casuale. Perché è il petrolio ad aver generato lo scontro tra Khartoum e Juba, cinquantaquattresimo Stato del continente africano, ufficialmente indipendente dal 9 luglio 2011, dopo una lunga guerra civile con i settentrionali, terminata con un accordo di pace nel 2005. E due terzi dell’oro nero prodotto in patria prendono quotidianamente la strada di Pechino. Gli altri importatori, Malesia, Giappone, Emirati, India, Singapore, seguono a grande distanza. La mediazione tra i contendenti, di conseguenza, non può che essere un affare del Dragone.
Dopo l’indipendenza del Sud Sudan, la tensione tra i due Stati è sempre rimasta molto elevata. Molte questioni sono rimaste irrisolte, a partire dalla completa demarcazione delle frontiere e dalla definizione dei diritti di sfruttamento del petrolio. L’oro nero rappresenta il 98 per cento delle entrate di Juba, che possiede la maggior parte dei giacimenti dell’area. Il neo-Stato, però, non dispone di oleodotti e ha bisogno di un accordo con i settentrionali per avere accesso all’export, in particolare allo snodo strategico di Port Sudan, sul Mar Rosso. Recentemente Salva Kiir ha firmato accordi preliminari per la costruzione di due infrastrutture, l’una attraverso l’Etiopia, l’altra in direzione del Kenya, ma si tratta di progetti che richiederanno anni per giungere a conclusione.
I negoziati sulle royalties dell’oro nero si sono arenati: Khartoum chiede un pedaggio di 36 dollari per barile, Juba offre una cifra di gran lunga inferiore. Lo scorso gennaio il Sud Sudan ha sospeso la produzione, accusando il vicino di avergli sottratto ingenti quantità di petrolio, ma la decisione ha avuto gravi conseguenze sul bilancio pubblico. Bashir, dal canto suo, aveva fatto occupare, nel maggio 2011, una zona frontaliera ricca di idrocarburi, quella di Abyei, il cui status avrebbe dovuto essere oggetto di una trattativa.
Il 10 aprile Salva Kiir ha mosso le proprie truppe alla conquista del distretto di Heglig, un’area petrolifera di grande importanza, che l’arbitrato internazionale aveva assegnato al settentrione. In seguito alla pressione internazionale e ai pesanti bombardamenti dell’esercito di Khartoum, Juba ha fatto marcia indietro. Bashir, però, ha approfittato dell’episodio di Heglig per colpire duramente il vicino, anche perché lo spettro di un nemico esterno serve a distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni. Dopo la secessione dei meridionali, le casse statali del Sudan languono, l’inflazione è alle stelle, mentre altri gruppi ribelli, nel Sud Kordofan e nel Nilo Azzurro, reclamano il distacco da Khartoum.
Così gli aerei di Bashir hanno avviato una serie di pesantissimi attacchi oltre confine: alcuni ponti, il mercato di Bentiu, capitale della provincia petrolifera di Unity, e soprattutto le postazioni dell’esercito sud-sudanese. Alcune fonti hanno parlato dell’uccisione di 1.200 soldati. Malgrado la bancarotta sia vicina, il regime ha deciso che la maggior parte delle risorse nazionali dovesse essere utilizzata per “respingere l’aggressione” del nemico. Ai dipendenti pubblici è stato ordinato di donare una parte dei salari per le necessità dell’esercito.
Nonostante gli appelli ripetuti della comunità internazionale, chi può disbrigare la matassa è soprattutto Pechino. Il Dragone è un alleato di vecchia data di Bashir, a differenza dell’Occidente, che lo ha sempre considerato un paria – è ricercato anche dalla Corte Penale dell’Aja – ma i rapporti non sono più così idilliaci, soprattutto dopo che la sicurezza dei lavoratori cinesi è stata messa in pericolo: lo scorso gennaio ventinove operai sono stati catturati dai ribelli del Kordofan. Allo stesso tempo, Hu Jintao ha costruito un forte legame anche con Salva Kiir, che, di fronte al suo omologo, non ha mancato di ricordare «la partnership economica e strategica» tra i due Paesi.
Il portavoce del ministero degli Esteri, Liu Weimin, è stato chiaro: «Mantenere la stabilità e la sostenibilità della cooperazione petrolifera tra i due Sudan è nell’interesse di entrambi i Paesi, oltre che della Cina e delle sue imprese». Pechino ha inviato il proprio rappresentante speciale per gli affari africani, Zhong Jianhua, e ha contribuito alla stesura di una risoluzione votata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in cui si chiede la fine delle ostilità, pena sanzioni, e il ritiro senza condizioni di tutte le forze armate oltre confine.
Ieri ad Addis Abeba, sotto l’egida dell’Unione Africana – e con la Cina nella parte del convitato di pietra – sono iniziati i colloqui tra le due parti. Le forze di peacekeeping dell’Onu hanno confermato il ritiro delle truppe sudanesi da Abyei, una delle pre-condizioni della trattativa. La via d’uscita del conflitto è ancora lontana ed è difficile che il Dragone, considerata la tradizionale politica di non-interferenza, prenda le parti di uno dei contendenti. Ma la sua sete energetica è troppo forte perché Hu Jintao non sia spinto a fare il demiurgo di una nuova e più stabile intesa.