La Merkel non insista: con l’austerity ci perdiamo tutti

La Merkel non insista: con l’austerity ci perdiamo tutti

Pressata da ogni parte, la Germania comincia a muoversi. I segnali si sono moltiplicati nei giorni scorsi: la Bundesbank improvvisamente molla sull’inflazione (“potremmo accettare un tasso un po’ più alto in Germania, mentre gli altri escono dalla recessione”), il ministro delle Finanze Schäuble apre sull’aumento dei salari per aumentare la domanda interna (e aiutare gli altri paesi dell’eurozona), la Cdu comincia ad accettare il salario minimo e Peter Altmaier, numero due del partito della Merkel, si mostra cautamente positivo sui Project Bond (il no agli eurobond rimane però granitico). Tutte cose dette e contraddette nel giro di pochi giorni, prima che – è storia di oggi – arrivasse per la Cdu di Angela Merkel una sonora batosta. 

Si tratta di segnali tanto più positivi quanto più inattesi. La Germania si era mostrata sinora inamovibile nella difesa contro ogni manovra che potesse avere effetti inflativi, e vedremo in queste settimane se il rigore della Merkel sarà davvero pronto ad allentarsi. Si dice, e lo ripete anche il Financial Times di oggi, per un atavico timore legato al trauma dell’iperinflazione weimariana. Può anche darsi che questa sia la motivazione profonda dell’avversione tedesca all’inflazione. Non sarò certo io a sostenere che non si debbano imparare le lezioni della storia. Ma mi pare, francamente, che, anche restando al periodo fra le due guerre, vi siano ben altre lezioni da imparare. L’iperinflazione, per quanto traumatica, fu l’esperienza di un paio d’anni, fra il 1921 e il 1923. E fu risolta quasi istantaneamente, non appena si sostituì al vecchio marco svalutato, il nuovo Rentenmark, coperto dalla garanzia di terre e di prodotti industriali. Ben più drammatica fu la deflazione che seguì alla crisi del ’29 e che durò per l’intero decennio successivo, contagiando il mondo intero e contribuendo, in Germania, a creare le condizioni economiche e sociali favorevoli all’ascesa del nazismo. Possibile che fino ad oggi, in Germania, in Europa e nel resto delle economie capitalistiche non si sia ancora imparato che la deflazione è più pericolosa dell’inflazione e che, anzi, una moderata inflazione può aiutare ad alleviare il peso di debiti divenuti insostenibili?

Il fatto che ora la Bundesbank e il governo tedesco si mostrino aperti a un possibile aumento dei prezzi e dei salari è, dunque, da salutare con favore. Potrebbero, infatti, derivarne effetti benefici per i paesi debitori, per l’intera zona euro e, di rimando, per la Germania stessa. Per due ordini di motivi. L’incremento salariale produrrebbe un aumento del reddito disponibile e, quindi, della domanda di beni di consumo da parte dei lavoratori tedeschi, che si rivolgerebbe, almeno in parte, anche ai beni prodotti in altri paesi europei. D’altro canto, l’aumento dei prezzi in Germania ridurrebbe la competitività tedesca, contribuendo a riassorbire gli sbilanci commerciali che sono all’origine dell’attuale tensione fra paesi creditori e debitori e che rischiano di frantumare l’Europa.

Sarebbe anche opportuno, a ben vedere, che tali misure non fossero intese come un gesto di generosità da parte della Germania, bensì come un atto dovuto, come una necessaria inversione di rotta rispetto a un comportamento che ha contribuito, in maniera del tutto simmetrica rispetto alla prodigalità dei paesi debitori, a creare gli squilibri della zona euro. Infatti, è stato proprio il fatto di avere contenuto gli aumenti dei salari e dei prezzi al di sotto di tutti gli altri paesi europei che ha consentito alla Germania di esportare e crescere a ritmi così sostenuti, al riparo della moneta unica. C’è da pensare che, oltre allo spettro dell’iperinflazione, anche tali vantaggi abbiano consolidato l’ostinazione tedesca per la difesa di una moneta forte. Di fatto, l’euro ha impedito a paesi come il nostro facili guadagni di competitività attraverso la svalutazione del cambio nominale, ma non ha impedito alla Germania di svalutare il proprio cambio reale attraverso una riduzione dei prezzi relativi. Si è trattato, a tutti gli effetti, di una svalutazione competitiva, più subdola, ma non meno dannosa. Se adesso le parti s’invertono, si tratta soltanto di un modo per ripristinare le regole del gioco che, da David Hume in poi, sono sempre state riconosciute come il fondamento di un commercio internazionale equo ed equilibrato.

Temo, tuttavia, che non sia sufficiente. Anche ammettendo che la Germania accetti finalmente di fare la sua parte nell’adeguamento dei tassi di cambio reali, l’onere di sostenere e di riassorbire gli squilibri europei (che, insisto, tutti i paesi hanno concorso a creare) continuerebbe a gravare in misura preponderante sulle spalle dei debitori. E, come Keynes denunciò già negli anni Quaranta, la distribuzione asimmetrica dell’onere di aggiustamento sulle spalle del debitore rischia di perpetuare gli squilibri internazionali a danno di tutti.

I motivi della dissimmetria sono molteplici. Innanzi tutto in ordine all’insorgere dello squilibrio: la posizione di paese creditore è sempre assunta volontariamente, mentre quella di debitore potrebbe essere dettata da uno stato di necessità, più o meno stringente. Infatti, un paese potrebbe essere costretto al deficit, potrebbe non potersi permettere di spendere di meno; viceversa, un paese non è mai costretto al surplus, giacché potrebbe sempre spendere di più. Una volta insorto il debito, e per tutta la sua durata, esso dà luogo a una dissimmetria ancor più evidente: il paese in deficit sostiene un onere, mentre il paese in surplus riceve un beneficio, nella forma dell’interesse corrisposto dall’uno all’altro. Se, poi, un paese intende ridurre la propria posizione debitoria o creditoria, si manifesta un’ulteriore dissimmetria: per riequilibrare i propri conti con l’estero, un paese in deficit deve attuare politiche restrittive, mentre un paese in surplus deve attuare politiche espansive – e le prime sono assai più dolorose delle seconde, come sanno i Greci e sempre più anche gli Italiani. Infine – e anche questo è cronaca – il processo di aggiustamento è obbligatorio per il paese in deficit e facoltativo per il paese in surplus.

Se si vuole davvero uscire dall’impasse, occorre dunque che gli oneri dell’aggiustamento siano ripartiti equamente fra debitori e creditori, così come simmetricamente si sono ripartiti, finché sono durati, i benefici dello squilibrio. Un modo per farlo è stato disegnato proprio da Keynes con la proposta della Clearing Union Internazionale, che è stata malauguratamente accantonata a Bretton Woods a favore di un sistema fortemente asimmetrico, fondato sull’utilizzo del dollaro come moneta internazionale. Ho già avuto modo, su Linkiesta, di auspicare la costituzione di una camera di compensazione in Europa, sul modello della Clearing Union. Da allora, ho scoperto che una camera compensazione esiste già! Si chiama Target2 e consiste nel sistema di pagamento utilizzato dalla Banca centrale europea per gestire i regolamenti internazionali all’interno del Sistema europeo delle banche centrali.

Grazie a tale sistema, sono stati finanziati in misura crescente i deficit delle bilance dei pagamenti dei paesi debitori, da quando, con lo scoppio della crisi, si sono prosciugate le fonti di finanziamento consuete attraverso il mercato interbancario e i mercati finanziari. Così, la Germania, assieme agli altri paesi in surplus, ha accumulato negli ultimi cinque anni oltre 800 miliardi di crediti all’interno di questa camera di compensazione e, specularmente, Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda e, nell’ultimo anno, anche l’Italia, hanno accumulato complessivamente un volume equivalente di debiti. In tal modo, attraverso Target2, la Bce ha dato un contributo essenziale al finanziamento degli squilibri, in un momento in cui gli operatori privati erano sempre meno disposti a farlo. Ma non ha contribuito a riassorbirli. Per fare di Target2 una camera di compensazione capace di ridurre gli squilibri, oltre che di finanziarli, bisognerebbe che adottasse almeno tre misure: una restrizione del credito esclusivamente a favore delle transazioni commerciali fra paesi europei; un limite massimo alla possibilità di accumulare saldi positivi o negativi, commisurata al volume del commercio estero di ciascun paese; un tasso d’interesse simmetrico da imporre tanto ai paesi creditori quanto ai debitori, al fine di ridurre gli uni e gli altri a tornare all’equilibrio. In questo modo, si avrebbe davvero una Clearing Union Europea, capace di ridare ai paesi dell’euro una solidarietà concreta che potrebbe restituire all’Europa intera l’unità d’intenti che oggi le manca.

X