Esistono dei luoghi che hanno la capacità di isolare il tempo, di renderlo visibile attraverso l’effetto che questo produce sulle cose e sulle persone. Nelle città italiane la storia si stratifica: un ipotetico percorso che va dal centro alla periferia permette di riconoscere la successione delle epoche e degli stili. La forma urbana racconta visivamente l’evoluzione di un territorio. È una sequenza continua che viene riletta al presente: ogni luogo storico viene vissuto o visitato da persone che hanno occhi contemporanei.
Nell’isola dell’Asinara questa dimensione evolutiva scompare. Le case e le cose sono lasciate a se stesse, in una sorta di collage di periodi e di storie interrotte. L’isola, nei secoli, è stata abitata da piccole comunità stanziali, dai prigionieri della prima guerra mondiale, dagli ospiti del lazzaretto, dai carcerati.
Camminare a piedi sull’isola significa incontrare pezzi di storia. È una paratassi fatta di torri aragonesi, costruzioni sabaude, fattorie dell’ottocento, prigioni. Gli edifici sono isolati: sono isole sull’isola. Al loro interno è ancora possibile trovare gli oggetti di chi le ha abitate, abbandonati come se le persone fossero state costrette a lasciar tutto, senza preavviso.
(fotografia di Francesca Canu)
I reperti esposti in un museo perdono gran parte del loro valore. Il museo seleziona per noi, mette una cornice, racconta in maniera didascalica. Nelle esposizioni gli usi sono raccontati, mentre gli eventi, il prima e il dopo, sono illustrati privando gli oggetti della loro età effettiva. Trovarsi di fronte ad un oggetto, nel contesto in cui questo è stato usato o addirittura concepito, ci spinge ad uno sforzo immaginativo naturale. La mente, in maniera spontanea, cerca di risalire la storia, di ricostruire il passato.
Foucault definisce i musei come i “luoghi di accumulazione del tempo”. Il museo è un’eterotopia nella quale l’uomo archivia il tempo che passa, il suo passato. È un’eterotopia molto particolare, che si apre, per simmetria, ad un’eterocronia. In un museo il potere di emozionare è annullato dalla rottura assoluta con il tempo tradizionale delle persone.
Nei musei il tempo si accumula, si raccoglie in se stesso, all’infinito, rendendosi a sua volta fuori dal tempo, sospeso, inaccessibile e incorruttibile, fuori dalle dinamiche umane. Sull’isola dell’Asinara il tempo si manifesta attraverso i suoi effetti sui luoghi e sulle cose. Il degradarsi degli edifici e degli oggetti, restituisce, netta, la consapevolezza che il tempo, l’edax rerum, non risparmia nulla.
Nella rovina del lazzaretto c’è una sequenza interminabile di docce, disposte su più linee accostate. Creano dei lunghi corridoi privi di privacy, claustrofobici e senza uscita, come in una tonnara. Le persone, una volta sbarcate sul molo antistante, venivano messe in fila sulla banchina, spogliate e costrette a percorrere la lunga teoria delle docce. Il lazzaretto doveva essere molto affollato. Poco più in la ci sono alcuni edifici con il tetto a falda. Sembrano non essere visitati da decenni: su tutto si è stesa una patina di polvere che ha reso gli spazi grigi e monocromi.
(fotografie di Francesca Canu)
Sono i magazzini dove venivano accatastati gli oggetti e le vettovaglie necessarie al regime di quarantena. Contengono centinaia di scaffali. In uno sono disposti in maniera ordinata decine di pitali. La polvere ha coperto ogni cosa. Su un ripiano ci sono dei cucchiai. Sembrano appena rinvenuti dal fondo del mare, ossidati e deformi. Più in la ci sono dei grossi saponi parallelepipedi, simili a dei mattoni sporchi. Tutto risveglia una forte compassione, un senso di vicinanza con chi è passato qui, con chi ha usato quegli oggetti e occupato questi luoghi.
Sull’isola si può camminare per ore senza incontrare nessuno. Ogni tanto ti imbatti in delle rovine isolate nella vegetazione bassa. Alcune riportano lo stemma dei Savoia, altre sono le abitazioni di quelli che un tempo erano gli abitanti dell’Asinara. Nel 1885 furono costretti ad abbandonare l’isola che si stava trasformando in una colonia penale. Gli espropriati si spostarono sulla “terra-ferma” e fondarono Stintino.
Vicino a Cala Reale c’è un una struttura bassa. È il perimetro di un vecchio cimitero, un rettangolo aureo ricavato in un paesaggio selvaggio. All’interno del recinto le lapidi sono quasi scomparse, soffocate dalla vegetazione: erba e fiori ricoprono quasi completamente le tombe. Nel perimetro del piccolo camposanto sono cresciuti due alberi contorti, riparati dal vento perenne dell’isola. Le scritte sulle lapidi sono quasi illeggibili. Il muro di cinta ha perso il suo ruolo di separazione: dentro c’è una natura selvaggia, così come al di fuori. Nessuno porta più fiori su queste lapidi, se non il caso, che si è sostituito ai visitatori, spargendo sulle tombe i fiori di campo.
Quel muro definisce un luogo. Un luogo in mezzo a un prato, su un’isola in mezzo al mare. Solo la sua presenza, quella del muro, fa sì che si possa identificare quel punto, come un’isola con le sue coordinate.
La parte Nord dell’isola è quella più selvaggia. Pochi edifici si sono spinti fino all’estremità che fronteggia la Corsica. Il faro è un edificio imponente, alto cinque piani, realizzato su un promontorio roccioso. Al suo interno tutto è rimasto come quando ospitava la residenza del guardiano. Ogni cosa ha lo stesso potere evocativo degli oggetti accumulati nel sanatorio, ma, in questo caso, tutto concorre a definire una sensazione di solitudine totale. Nella costruzione sono ancora presenti le suppellettili dell’addetto alla sorveglianza. Sul registro sono segnate a mano le provvigioni richieste alla terra-ferma. L’ultimo ordine risale agli anni ’80.
La vegetazione è molto rada, il paesaggio appare lunare, inospitale. È l’unico posto dell’Asinara dove è possibile osservare la doppia natura dell’isola. Ad Est, verso l’Italia, il mare sembra più calmo e la macchia più rigogliosa, mentre ad Ovest l’orografia si impenna, creando coste vertiginose che terminano a picco sui flutti agitati. La vita in questo luogo non doveva essere facile. Chi viveva nel faro era a due ore di marcia dal carcere più vicino.
Quando visiti l’isola cammini e rifletti, non hai fretta. I luoghi hanno una distanza geografica relativamente breve, ma non esistono mezzi di trasporto che ti permettano di accorciare i tempi di percorrenza. L’Asinara, nonostante il suo totale isolamento, raccoglie luoghi in cui è passata la storia recente del nostro paese. La sua posizione remota e la sua funzione carceraria ha fatto si che, verso la fine del XX secolo, sull’isola venissero ospitati brigatisti e mafiosi.
A cala d’Oliva c’è una struttura militare. È la foresteria del carcere dove Falcone e Borsellino prepararono i documenti necessari al maxi-processo del 1985. Poco più sopra c’è il carcere di massima sicurezza in cui sarebbe stato internato Salvatore Riina.
Ci siamo fermati silenziosi sulla spiaggia ciottolosa di fronte alla foresteria.
Abbiamo raccolto pezzi di vetro arrotondati dal mare.
In Inghilterra li chiamano “lacrime di sirena”.
Li abbiamo messi assieme, creando due piccoli cumuli colorati che sarebbero stati disfatti alla prima mareggiata.
Siamo rimasti sulla spiaggia per un po’, aspettando che l’ultima luce del giorno andasse via.