Chi fonda imprese nell’Italia in crisi? Gli immigrati

Chi fonda imprese nell’Italia in crisi? Gli immigrati

Francesco Wu ha 31 anni, una laurea in Ingegneria elettronica al Politecnico di Milano, di professione ristoratore. Di un ristorante italiano. Nato in Cina, Wu è arrivato in Italia nel 1989, «prima della caduta del Muro di Berlino», e qui ha frequentato tutte le scuole, dalla seconda elementare in poi. Dopo la laurea, aveva una promettente carriera davanti, assunto da aziende italiane che lavorano in Cina, «a 26 anni ero già manager, avevo sotto di me una cinquantina di persone». Ma, siamo nel 2008, un progetto a cui stava lavorando non decolla e, complice anche la crisi, Wu decide di mettersi in proprio: nel 2009 rileva la gestione del ristorante “Al borgo antico”, il secondo più grande di Legnano, con 200 coperti. Non lo trasforma in un ristorante cinese: da buon ingegnere, rimette mano all’organizzazione del locale sul modello di una piccola azienda e lo mantiene di cucina italiana. Nel ristorante lavorano fissi due dipendenti cinesi e due italiani «e poi ci sono cinque persone della mia famiglia», che lo aiutato nella sua impresa permettendogli di bypassare le banche. Senza il sostegno economico dei parenti Wu non sarebbe riuscito a rilevare il locale. «Ci siamo indebitati per aprire questa attività, rischiando: abbiamo ipotecato la casa, mi hanno aiutato i miei parenti – racconta Wu -. Nel mondo cinese ci si aiuta tra parenti. È vero che l’interesse del prestito è zero, però se tu non paghi il debito, lo pagano i tuoi figli. I debiti vanno saldati, è una questione di onore e di rispetto». Wu ha dovuto fare i conti, oltre che con la burocrazia incontrando «le stesse difficoltà che incontrano gli imprenditori italiani», anche con la diffidenza: «Siamo gli unici nella zona che abbiano un ristorante italiano gestito da stranieri – ci tiene a sottolineare -. All’inizio qualcuno entrava pensando di trovare un ristorante cinese. Oppure qualcuno che abita qui in zona e che prima frequentava il ristorante, quando l’ho preso in gestione io per diverso tempo non ci è più venuto. Ma poi sono ritornati e oggi c’è anche chi dice che si mangia meglio di prima».

Wu fa parte dell’esercito degli imprenditori stranieri che popolano l’intero Paese e in particolare la Lombardia e Milano. Un esercito che sembra non conoscere la crisi. Secondo gli ultimi dati elaborati dalla Camera di Commercio di Milano relativi al quarto trimestre del 2011, in città le piccole imprese con un titolare straniero sono oltre 24 mila, pari al 20,6% del totale delle piccole imprese che operano nel milanese. Occupano quasi 36 mila persone: di queste circa 1 su 5 è italiano, per un totale di quasi 7.200 dipendenti. Solo nel 2011 «sono nate 12mila nuove piccole imprese straniere: si tratta di una situazione molto interessante dal punto di vista quantitativo», commenta Lauro Venturi, commissario straordinario della Confederazione nazionale artigianato (Cna) di Milano e Monza Brianza. Soprattutto perché gli immigrati svolgono quei lavori anche manuali e artigianali «che spesso vengono sottovalutati dagli italiani: esiste questo tabù che il lavoro manuale sia uguale a un livello di istruzione più basso e a una bassa posizione nella scala sociale». I dati, ancora una volta, parlano chiaro: nelle piccole imprese, i settori a maggioranza non-italiana sono 19. E sono i più svariati: se consideriamo anche le imprese più grandi, troviamo l’attività degli internet point (455 imprese straniere su 486, il 93,6% del totale), il commercio al dettaglio ambulante di bigiotteria (88,2%), il commercio di tappeti (sia al dettaglio: 69,8%; che all’ingrosso: 66,7%), la spedizione di materiale propagandistico (61,3%), la fabbricazione di tappeti e moquette (59,4%) l’attività di sgombero di cantine, solai, ecc. (56,3%) e le attività non specializzate di lavori edili (muratori: 51% con oltre 3.200 imprese). Se guardiamo alle piccole imprese, ci sono, tra gli altri, i servizi dei centri per il benessere fisico e massaggi (69,9% del totale), le attività di traduzione e interpretariato (65,3%) e l’attività di pulizia degli edifici (62,9%).

Tra le sole imprese straniere, le donne imprenditrici rappresentano la maggioranza in particolare nei settori legati alla cura della persona e dei servizi più in generale: istituti di bellezza, servizi di asili nido, lavanderie industriali, erboristerie, parrucchieri. I piccoli imprenditori stranieri sono soprattutto egiziani (1 su 5), cinesi (15,9% del totale) e rumeni (8,9%). Interessante anche la tendenza tutta milanese, registrata sempre dalla Camera di Commercio, nel settore del commercio al dettaglio di riviste e periodici al 2011: su 502 piccole rivendite di giornali e periodici attive in città in un caso su sette (14,1%, 71 imprese individuali) il titolare è straniero. Un abisso, rispetto alle altre città: basti pensare che a Bologna, seconda in classifica, gli stranieri pesano per il 6,3%. A preferire questo settore a Milano sono i latino americani (30 titolari di impresa su 71 stranieri in città, 42,3%, di cui 21 peruviani), e gli asiatici (15,5%, di cui l’11,3% sono cinesi).

«Innanzitutto, sfatiamo il mito secondo cui gli immigrati occupano il posto dei lavoratori italiani: hanno sostituito i lavori abbandonati dagli italiani. Si consideri che negli ultimi 10 anni, a livello nazionale, la percentuale degli immigrati impiegati nelle concerie è passata dal 22% all’80%». Radwan Khawatmi, siriano d’origine, cittadino italiano, fa parte della prima generazione di immigrati e oggi rappresenta un punto di riferimento per tutta la comunità: è il presidente del Movimento Nuovi Italiani e nel 2009 è stato nominato imprenditore immigrato dell’anno. Arrivato in Italia per motivi di studio, a 17 anni, prima ha lavorato per un’azienda italiana per poi mettersi in proprio. All’inizio erano in due, oggi la sua azienda, Hirux International attiva nel settore degli elettrodomestici, ha un fatturato di circa 60 milioni di euro annui ed è leader europeo con centinaia di dipendenti, sia italiani sia stranieri: «non c’è differenza: conta solo il merito».

Khawatmi allarga l’orizzonte della situazione degli immigrati all’Italia, sia dal punto di vista economico sia sociale. «Secondo i dati Istat 2011, i lavoratori immigrati versano mensilmente circa 800/820 milioni di euro al mese di contributi, pari a circa 9 miliardi l’anno, e producono l’11,2% del Pil italiano, pari a circa 125 miliardi di euro l’anno. L’apporto all’economia italiana degli immigrati non è quindi questione di due lavavetri e quattro criminali». Oggi ci sono circa 6 milioni di immigrati in Italia, circa il 10% della popolazione. Di questi, «circa 5 milioni sono regolari mentre sono circa 800mila quelli irregolari. Quelli che commettono reati sono circa lo 0,9% di tutta la popolazione di immigrati in Italia, ma sono quelli che fanno notizia», puntualizza Khawatmi, che non accetta gli stereotipi spesso legati alla figura degli stranieri: «il lavoro nero è un fenomeno tutto italiano ed è fisiologico anche tra gli immigrati, e il criminale non ha razza». L’importanza del lavoro degli immigrati per l’economia italiana emerge anche da un altro dato: «Negli ultimi 8 anni gli immigrati hanno creato 230 mila nuove imprese, in un momento dove oltre 350 mila italiane hanno invece cessato la loro attività. Questa controtendenza ha un grande significato e si spiega nella capacità imprenditoriale degli immigrati e nella loro scelta di affrontare i rischi». Una scelta quasi obbligata: per l’immigrato è più difficile essere assunto. Quelli che ce l’hanno fatta, per Khawatmi «sono in assoluto i migliori, i più preparati. Gli altri devono fare forza solo sui loro mezzi. Ci sono ancora all’interno delle comunità le collette per aiutare chi si vuole mettere in proprio, ci sono i prestiti dei familiari, degli amici: si mette il capitale, si inizia da zero, è molto difficile».

La maggiore propensione al rischio imprenditoriale degli immigrati è confermata anche da Venturi, che sottolinea come «l’iscrizione nel registro imprese per un extracomunitario è un dato importantissimo perché significa emersione dal nero e anche uscire dal controllo della criminalità organizzata». Venturi però spiega che «si tratta di imprese generalmente più fragili, soprattutto perché gli stranieri devono affrontare anche l’inserimento nella società e, purtroppo, a volte bisogna verificare che siano imprese reali. Registriamo un’altissima mortalità delle neo imprese», ed è anche per questo che è nato Cna World, «uno sportello creato ad hoc per gli stranieri e offre assistenza, interpretariato, consulenza sulla normativa e sui temi di start up», oltre a seguire le pratiche per la regolarizzazione dei lavoratori, il riconoscimento dei titoli di studio, la richiesta di cittadinanza e il ricongiungimento familiare. «Creiamo inoltre occasioni di incontro e laboratori di professionalità tra artigiani professionisti e giovani che vogliono fare gli artigiani».

L’inserimento degli immigrati nelle comunità di riferimento, per Khawatmi, passa anche attraverso il riconoscimento di alcuni diritti, due su tutti: la cittadinanza ai figli di immigrati regolari nati in Italia e il diritto di voto amministrativo. «Premetto che la grande maggioranza del mondo dell’immigrazione non solo è d’accordo ma approva il rispetto delle regole, della fede del Paese, della Costituzione. Una volta che crediamo che il mondo dell’immigrazione abbia rispettato dei doveri, è giusto anche parlare di diritti: è una battaglia di civiltà, di senso di appartenenza a una nazione e a un Paese». Khawatmi è impegnato in prima persona da 13 anni per ottenere il diritto di voto amministrativo: «Chi risiede da cinque anni in Italia, parla italiano, non ha commesso reati e paga le tasse, ha diritto di scegliere i propri amministratori. Oggi la proposta di legge ha una larga maggioranza parlamentare e sono sicuro che con il prossimo governo che sarà approvata. Questo aprirà scenari molto interessanti: a Milano avremo circa 600 mila nuovi votanti. Noi sappiamo fin d’ora a chi saranno dati i nostri voti e saranno ben determinanti per l’elezione dei sindaci in molte realtà del territorio».

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