SEOUL – È raro che si parli d’Italia sulle prime pagine dei giornali coreani. È successo l’altro ieri, coincidenza forse poco sorprendente dato che l’attualità nostrana, per una volta e per motivi non molto buoni, era ricca. Né al terremoto né all’ennesimo scandalo del calcio-scommesse faceva però allusione il Korea Times, ma non per questo c’è da rallegrarsi. L’articolo infatti parlava di Alex Palmieri, un cantante italiano che per la sua canzone Disco Music non ha trovato miglior melodia che quella di Muzik dei 4minute. Anzi, per non sbagliare tutte le melodie dell’album Move sono allegramente scopiazzate!!
La notizia è interessante per vari motivi. La si può analizzare sotto il profilo della difesa della proprietà intellettuale. Come Eduardo Porter nella sua analisi sull’New York Times, sono parecchi a pensare che il copyright danneggia la creatività musicale – e del resto le cinque ragazze dei 4minute hanno dichiarato che sono contente che la loro musica sia piaciuta a Palmieri, avrebbero semplicemente apprezzato che il credito fosse riconosciuto! Ma si può parlare dell’episodio anche per presentare quello che sta diventando un fenomeno planetario – la popolarità della K-pop e più in generale della cultura popolare coreana, la K-wave (hallyu).
Un video delle 4 minute
A Seoul i 4minute sono infatti una delle band più popolari, ma non certo l’unica. Se si guarda al numero di singoli che hanno occupato il primo posto nella classifiche, Busker Busker, IU, SISTAR e T-ara sono gli artisti più popolari. E visto che il paese non è certo gigantesco, e oltretutto la natalità è in vistoso calo, la K-pop ha attaccato i mercati dei paesi limitrofi. In Giappone, rappresenta circa un decimo delle vendite; in Cina la canzone Nobody delle Wonder Girls è stata scaricata più di cinque milioni di volte nel 2010, il miglior score per un artista straniero. Quando poi la K-pop ha pensato che fosse arrivato il momento dei paesi occidentali, non lo ha certo fatto timidamente: dopo che mille e più fan francesi scatenate avevano praticamente invaso il terminal dell’aeroporto di Parigi per assistere all’arrivo delle Girls’ Generation nel giugno 2011, è al Palais des Sports di Bercy che si è tenuto il KBS Music Bank 2012, alla presenza di più di 10 mila spettatori.
L’hallyu non si ferma qui. Ci sono i cartoni animati Pororo il piccolo pinguino e Lifie, una gallina nella natura (lanciato contemporaneamente in 2 mila cinema cinesi nel 2011); i musical in cartellone a Osaka e Tokyo (solo quest’anno sono otto le produzioni coreane, in alcuni casi preferite anche agli originali americani come Thrill me); e ovviamente le soap operas come Winter Sonata, la cui star Bae Yong Joon nel 2004, momento di massima popolarità della serie, fu protagonista di 12 spot pubblicitari in Corea e Giappone, oppure Dae Jang Geum (Il gioiello nel Palazzo) che nel 2007 ha battuto tutti i record di audience in Iran.
Prima che qualcuno s’immagini la rive gauche o il Village, va chiarito che all’origine di questo miracolo c’è un disegno imprenditoriale e addirittura politico coi fiocchi. Altro che poeti maledetti e artisti che ambiscono a cambiare il mondo a colpi di pennellate, strofe a accordi, dietro la K-wave c’è la Korea, Inc.! Il Presidential Council on Nation Branding (PCNB) è stato creato nel 2009 proprio per coordinare le strategie pubbliche e private di promozione della marca Corea sui mercati internazionali. La CJ Entertainment & Media – emanazione del gruppo alimentare CJ (nel senso che produce ogni sorta di alimenti e gestisce centinaia di punti vendita per ogni genere di fast food) che a sua volta faceva parte del gruppo Samsung fino al 1995 – è il principale produttore di K-wave. Ogni mattina chi scrive, passando di fronte alla sede di CJ E&M mentre si avvia verso la stazione della metropolitana di Digital Media City, incrocia dozzine di adolescenti che sperano di far parte della folla adorante che assiste alle trasmissioni musicali! Pororo è produzione Iconix – emanazione dell’agenzia pubblicitaria Diamond Advertising, del gruppo Hyundai.
Nulla di male, piuttosto una lezione pure per l’Italia, che sembra crogiolarsi ancora nell’illusione di avere il miglior patrimonio culturale del mondo. Il soft power nella globalizzazione della cultura non si pesa soltanto col numero di edifici iscritti nel registro Unesco del patrimonio mondiale dell’umanità – che peraltro va pure preservato, cosa che Pompei e le Dolomiti suggeriscono che non siamo tanto bravi a fare. Il Seri (che sta per Samsung Economic Research Institute, emanazione quindi di uno dei chaebol che dominano l’economia coreana) ha sviluppato un indicatore per misurare quanto cool è un paese. La metodologia è complessa e come sempre in questi casi facile da criticare, ma i risultati fanno riflettere. Misurando otto variabili che costituiscono la sostanza della coolness (economy/corporations, science/technology, infrastructure, policies/institutions, traditional culture/nature, modern culture, people, and celebrities), l’Italia è quarta nel 2011 per la ricchezza della tradizione culturale e paesaggistica e decima per la notorietà delle sue celebrità.
I ricercatori sono poi andati a chiedere a un grosso campione di persone influenti in giro per il mondo cosa ne pensano di 26 paesi. Nel complesso l’Italia, che ancora riusciva a piazzarsi all’ultimo posto della Top 10 nel 2010, non è più percepita come uno dei dieci paesi più cool al mondo, vede avvicinarsi pericolosamente la Corea, ormai al 19° posto. Le raccomandazioni del Seri per migliorare la percezione della marca-paese e far sì che essa rifletta meglio la sostanza della coolness sono molto precise: nel breve periodo investire per promuovere le celebrità e la K-wave, nel medio-lungo rendere imprese e imprenditori, soprattutto nelle nuove tecnologie, più consapevoli del loro ruolo di ambasciatori della Corea nel mondo e dell’importanza dell’immagine.
I coreani, insomma, sembrano saper come e cosa fare per costruire un’immagine-paese in grado di far sognare le masse in tutto il mondo, e soprattutto le classi medie delle economie emergenti. Anche se poi sanno anche dimostrarsi cattivi(ssimi) perdenti. Ieri in prima pagina del Korea Times campeggiava una foto di Im Sang-soo, il regista di The Taste of Money. Presentato a Cannes, questo film racconta le vicende e le passioni (molto carnali) di una famiglia miliardaria e sta avendo discreto successo in Corea. È stato invece giudicato da Screen International il più brutto in assoluto tra quelli in concorso, al limite del pornografico. Al posto che tornarsene mestamente a Seoul, Im ha dichiarato alla stampa coreana che il suo personale insuccesso (una tragedia, lo definisce) dimostra come Cannes sia dominata dagli occidentali e che solo i coreani sono in grado di comprendere i suoi film. Parafrasando Nanni Moretti, che ha presieduto la giuria del festival – “di’ una cosa intelligente, Im!!”.