Spesso a leggere come le élite si autodescrivono si capisce perfettamente perché siamo in questa situazione. Il primo passo per curare una malattia è infatti quello di sapere di essere malati. Basta prendere il Corriere di oggi e leggere Angelo Panebianco per rendersi conto di cosa stiamo parlando. Dice il politologo bolognese che l’attuale crisi delle élite sarebbe dovuta soprattutto ad un problema di «ciclo generazionale»: «A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili), segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l’età del disordine e ricordano le morti violente […] si adoperano perché quei tempi non tornino più». Poi però, piano, piano, queste generazioni spariscono e «per i loro nipoti non c’è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo». L’altra ragione messa in campo da Panebianco per spiegare l’attuale crisi delle élite è quella del dirigismo, soprattutto di marca francese, su cui è stata costruita la Ue. Tutte buone motivazioni, per carità, ma la rappresentazione che fa il quotidiano di via Solferino suona quantomeno auto-assolutoria.
Siamo proprio sicuri che le élite al potere non abbiano colpe a parte quella del ciclo generazionale e del processo di costruzione della Ue? Ai cittadini sono stati prima rifilati vent’anni di salari quasi fermi mentre la rendita di chi partecipava al rischio cresceva a dismisura. Quando poi si è visto che questo rischio era stato sottovalutato, e il sistema è imploso, si è pensato bene di fare pagare il conto a quelli che per vent’anni hanno più subito che beneficiato del processo di accumulazione della ricchezza. Il modo in cui sono state gestite le privatizzazioni in mezzo mondo (chiedete agli italiani di Telecom Italia ma anche ai neozelandesi dei loro treni) urla vendetta, ma questo sarebbe un pezzo a sé. Le banche, per fortuna non in Italia, sono state salvate con soldi pubblici, poi quando questi salvataggi hanno comportato un problema di debito pubblico, le stesse banche si sono messe a puntare i piedi contro un debito che in molti casi si è costituito proprio per salvare loro e i loro maneggi. Gli economisti che elogiavano le magnifiche sorti progressive di quel modello hanno scambiato una scienza umana che, come dice Rupert Murdoch, ha l’affidabilità delle previsioni del tempo, per una scienza esatta. (Il problema di come coniugare il determinismo delle scienze esatte con l’indeterminetezza di quelle umane è un problema kantiano ma in molti corsi universitari d’economia non si studia manco Adam Smith, figuriamoci il povero Kant).
La crisi delle élite attuali ha insomma tanti fattori, di cui il proprio fallimento nel costruire un mondo migliore per le generazioni future è sicuramente il primo, assieme al forte senso di ingiustizia che ne risulta. Se proprio vogliamo usare argomenti assolutori possiamo dire che la frantumazione del sapere, la sua polverizzazione (quella per cui l’ultimo matematico che conosceva tutta la matematica è stato Poincaré morto a inizio secolo, o, in altri termini, quella per cui il medico adesso conosce solo un organo e non più il corpo) rendono ora il mestiere intellettuale infinitamente più complicato perché ne frantumano la visuale e, se, a questo, si associa la crisi di modello economico, le vie di uscita diventano ancora più ardue, come abbiamo già avuto modo di discutere.
Ma se poi a questi fattori uniamo la “dinamica orizzontale” della Rete (quella per cui, per prenotare un ristorante o un albergo, mi fido di più di un anonimo utente che scrive il suo commento su tripadvisor che della presunta autorevolezza “verticale” della guida Michelin) e ne vediamo l’applicazione politica portata avanti da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo, è possibile rendersi conto che, per tutte queste ragioni, la crisi delle élite in corso ha un aspetto anche mediatico-tecnologico che rischia di essere epocale in quanto a profondità della messa in discussione della classe dirigente. Che poi questa messa in dicussione stia avvenendo per lo più nell’Europa continentale (in Italia col M5S, in Germania coi Piraten, in Francia con il voto al Front National) e molto meno nel Regno Unito è anche perché da quelle parti il dibattito sui criteri di selezione della classe dirigente è continuo (avete mai notato quante volte i giornali inglesi aprono le loro prima pagine sulla scuola?), con un minore utilizzo di scorciatoie cooptative.
In Italia poi, lo sappiamo, questo è un tema che combacia con la crisi delle università, da cui spesso si attinge per creare un élite, e con il ruolo del merito. I nostri atenei, in molti casi già specializzati nello scovare i bravi e sbatterli fuori o demotivarli, in altrettanti casi sono diventati cattedrali del vuoto che non producono più idee ma solo posti di lavoro spesso mal pagati.
Insomma, se anche la Chiesa per la prima volta mostra di non avere più quella capacità di selezionare élite che l’ha sempre contraddistinta è perché forse il problema è più generale e al contempo più specifico di come lo ponga Panebianco. Liquidare tutto ciò come fisiologico senza vedere la patologia, è molto pericoloso. E se poi a queste élite vengono adesso anche imputate colpe da malagestione ignorate dall’editorialista di via Solferino non è perché la gente («l’uomo comune europeo» come lo chiama lui) sia di colpo impazzita: se a questa classe dirigente non si riconosce più autorità è anche perché ha perso l’autorevolezza. Resta infine una curiosità: ma da quanti anni è che Panebianco scrive i suoi editoriali sul Corriere?
Twitter: @jacopobarigazzi