L’intervista al presidente del Consiglio è stata realizzata nell’ambito del progetto «Europa» che la Stampa ha avviato da alcuni mesi assieme ad altri cinque grandi giornali europei: Le Monde, El Pais, Süddeutsche Zeitung, The Guardian e Gazeta Wyborcza.
Ad una settimana da un Consiglio europeo al quale guarda tutto il mondo e a poche ore dal vertice propedeutico di Roma, Mario Monti si rivolge alla opinione pubblica dei più grandi paesi della Ue attraverso una intervista concessa allo spagnolo “El Pais”, al polacco “Gazeta Wyborcza”, al francese “Le Monde”, al tedesco “Suddeutsche Zeitung”, all’inglese “The Guardian” e a “La Stampa”. E accettando di rivolgersi idealmente ad un ipotetico «herr Muller», il cittadino medio tedesco che mai come in questo tempo è in grado di influire sui destini del vecchio Continente, Mario Monti gli dice di «non preoccuparsi» perché finora la Germania ha tratto «grandi vantaggi» materiali dall’integrazione europea e di «rilassarsi» rispetto al timore di tenere alto il tenore di vita degli italiani, perché l’Italia non ha mai «chiesto prestiti e ne ha concessi molti». Ma a chi gli chiede cosa potrebbe accadere in caso di una risposta debole da parte del vertice del 28 e 29 giugno a Bruxelles, il presidente del Consiglio adombra uno scenario allarmante: «Si determinerebbe un accanimento speculativo nei confronti dei Paesi più deboli e anche verso quelli meno deboli, come l’Italia, che sono in linea con i parametri europei ma che si trascinano un alto debito dal passato».
Ma al tempo stesso – ma questa sarebbe una novità di portata storica – ci sarebbe il rischio di una crisi di rigetto verso l’Europa, per effetto di un paradosso: per salvarsi dalla crisi servirebbe maggiore integrazione e invece la «frustrazione» dei cittadini potrebbe portare ad una crescente disaffezione verso il disegno europeista. Ma il professor Monti non è mai stato un pessimista, semmai un ottimista nelle virtù analitiche, come indirettamente conferma l’istantanea del suo studio al piano nobile di palazzo Chigi: alle 8 del mattino la scrivania del presidente del Consiglio è quasi interamente occupata da tre pile di cartelle, appunti, fogli, segni di una attitudine allo studio dei dossier che non ha abbandonato il professore nella sua stagione politica.
Presidente, cosa è cambiato dopo il G20 di Los Cabos? Sono intervenute significative novità nell’affrontare i problemi dell’Europa?
«Il G20, naturalmente, si dedica all’insieme dell’economia mondiale e alle questioni strategiche. In questo ambito, l’Europa mai come questa volta, è stata al centro dell’attenzione e delle preoccupazioni. Il G20 ha la particolarità di permettere a ciascuno dei leader europei di capire meglio le preoccupazioni dei non europei e d’altra parte il contesto più sciolto rispetto ai Consigli – dove invece si va per decidere – consente anche di cogliere i posizionamenti di ciascuno. Abbiamo insistito perché non si discutesse soltanto di Europa e d’altra parte le fonti dei principali squilibri macroeconomici e di bilancio pubblico sono fuori dall’Europa. La tanto chiaccherata eurozona presenta nel suo assieme disavanzo e debito pubblico che, in rapporto ai rispettivi Pil, sono inferiori a quelli del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone».
Questa sensibilità e questo clima più informale hanno aperto vie nuove?
«Non vie radicalmente nuove ma motivi, spero, per fare passi avanti e convergere su soluzioni efficaci. Vedo Los Cabos come un inizio promettente e largo, per i paesi presenti in vista del Consiglio europeo. Prima del quale sono previsti alcuni passaggi importanti, compreso quello in programma a Roma».
Cosa si aspetta dal vertice a quattro? E’ una tappa verso una accresciuta integrazione di tutta l’Unione, oppure è un tentativo di formare un nocciolo duro, concordare una politica comune da parte dei governi delle quattro economie più grandi dell’eurozona?
«C’erano una volta, come si direbbe nelle fiabe, Francia e Germania. Continueranno ad esserci, l’accordo tra di loro è condizione necessaria per i progressi dell’Ue e tuttavia è sempre meno una condizione sufficiente. Francia e Germania sono i primi ad accorgersene: gli accordi di Deauville dell’anno scorso hanno faticato ad essere accettati dall’insieme dei 17 o 27. L’Italia, da tempo, avrebbe avuto ragioni per essere considerata, sia dalla Francia che dalla Germania, quasi altrettanto rilevante».
Quasi?
«Dico quasi perché l’armonia di questa coppia è interesse vitale per tutta l’Europa, come la storia ci ha insegnato. Negli ultimi anni l’Italia non era sollecitata a co-influire nel processo come gli altri due, ma all’attuale governo italiano la Francia del Presidente Sarkozy e la Germania della cancelliera Merkel hanno fatto una apertura: da qualche tempo si era stabilito che a Roma si sarebbe tenuto un incontro a tre. Abbiamo poi ritenuto, visto l’interesse del governo spagnolo a partecipare, di accogliere volentieri la richiesta. Ci sono state altre manifestazioni di interesse a partecipare, ma abbiamo ritenuto che estendere oltre la cerchia avrebbe potuto generare equivoci. Anche perché, nella mia prospettiva, la partecipazione dell’Italia a queste cerchie informali è importante, ma la vedo come un modo per rafforzare e non indebolire il metodo comunitario: se avessimo allargato ad altri paesi sarebbe stato quasi un surrogato del Consiglio europeo. Io vedo la partecipazione italiana come un modo per fare ponte tra gli “ins” e i “pre-ins” per quanto riguarda l’eurozona e dunque abbiamo appoggiato la richiesta del governo polacco di avere – nell’ambito del Fiscal compact – una adeguata presenza a tante riunioni, se non a tutte, dell’euro-vertice. E con la Gran Bretagna abbiamo e avremo molte iniziative in comune. Una linea che ci accomuna, sia alla Polonia che alla Gran Bretagna ed è la convinzione che la crescita europea abbia molto da guadagnare da un mercato unico veramente integrato».
Otto mesi fa l’Italia era stata “convocata” a Cannes e fu messa alle strette perché desse garanzie e spiegazioni: da allora è come se fosse cambiato il mondo?
«Io non c’ero, ma mi dicono che siano state due giornate molto, molto pesanti per la Grecia e per l’Italia. Sì, nel giro di sette mesi le cose sono migliorate. Tra l’altro, alcuni giorni fa, è stato pubblicato un rapporto della Università di Toronto, il “Compliance Report”, che prende in esame i committments assunti da diversi paesi nel novembre a Cannes: come performance, il primo è risultato il Regno Unito, il secondo è l’Unione europea nel suo insieme e terza è l’Italia che, come Paese-paese, è al secondo posto, il migliore dentro l’eurozona. Naturalmente abbiamo ancora tantissima strada da fare, ma è incoraggiante che la voce dell’Italia venga ricercata ed ascoltata».
Secondo lei quale potrebbe essere considerato l’obiettivo minimo e irrinunciabile per il vertice di Bruxelles?
«Occorre assolutamente che ci siano due cose. Una prospettiva di medio termine di rafforzamento dell’integrazione, in modo che tutti gli europei sappiano dove vanno e i mercati possano convincersi che c’è e sarà rafforzata con ulteriori passi la volontà di rendere la moneta unica indissolubile e irrevocabile. Ma non basterà. L’altra cosa necessaria è un insieme di misure realizzabili, nell’assetto attuale sia dei Trattati che delle istituzioni, misure più efficaci per dare stabilità finanziaria all’eurozona. E questo passa attraverso una più piena unione bancaria, con avanzamenti per quanto riguarda la vigilanza, la supervisione integrata, se possibile unitaria. Passa attraverso la garanzia sui depositi. Passa per nuovi meccanismi che siano in grado di fare ponte con i paesi che hanno adottato seriamente gli impegni delle regole comunitarie, li hanno realizzati e che tuttavia scontano una certa inerzia e diffidenza. A volte impiegando molto tempo per ottenere nei mercati un riconoscimento adeguato. E naturalmente i mercati vanno tenuti ben presenti, anche se non sono il benchmark della perfezione: abbiamo visto che hanno dormito per 8-9 anni dopo l’ingresso nell’euro e i tassi di interesse hanno spesso consentito ai governanti di dormire. Oggi siamo in una situazione di sveglia acuta, di insonnia, di convulsioni e, così come allora ostacolava l’adozione di misure buone perché dava l’impressione che non fossero necessarie, oggi di nuovo il mercato finisce per scoraggiare le scelte buone, perché diversi Paesi si trovano a far sempre più fatica a far comprendere alle opinioni pubbliche che politiche giuste vanno continuate. Potrebbero essere dunque opportuno, quando c’è il riconoscimento da parte delle autorità europee del rispetto delle norme per la finanza pubblica e delle riforme strutturali, di trovare uno strumento, uno “scivolo” di passaggio verso un mercato più ordinato e sostenibile in termini di tassi di interesse».
Quale è la sua posizione sul sostegno alle banche spagnole?
«Io sono molto favorevole a questa misura. I problemi del sistema bancario in molti Paesi sono inestricabilmente legati a quelli del debito sovrano. Il sostegno che l’Europa può dare a quei sistemi bancari è stato fatto passare nel corpo dello Stato – vuole sostenere le banche ma in itinere aggrava la posizione dello Stato – e poiché spesso le banche hanno molti titoli di Stato, questa è una spirale non gradevole. Lo strumento attuale fa sì che, sparando, vengano colpiti due piccioni, mentre se ne vuole colpire uno solo. Tanto più che i due piccioni sono legati da stretta simpatia e da affinità e collegamenti finanziari e contabili e dunque bisognerebbe che uno restasse su per aiutare a sostenere l’altro. Non che cadessero tutti e due».
Perché è così convinto che l’Italia non abbia bisogno di aiuti come la Spagna e lei ripete così spesso questo concetto?
«Ci sono Paesi e popoli in Europa che, per qualche ragione, hanno la convinzione di essere sempre i pagatori del resto d’Europa. L’Italia è stata tra i paesi che si sono battuti perché i firewalls fossero ben dotati e capaci di agire in caso di necessità: questo talora è stato scambiato per un desiderio italiano di essere finanziati e noi abbiamo sempre precisato che non è così. A Cannes il mio predecessore, il presidente Berlusconi, era stato sotto pressione perché accettasse un programma di protezione. Così come a me erano venuti autorevoli suggerimenti a non rischiare troppo e a mettere l’Italia sotto tutela. Guardiamo il fondo Salva-Stati, l’Efsf: se qualcuno nel Nord Europa pensa che l’Italia abbia avuto sostegni, non è assolutamente così. In percentuale la Germania copre il 29,1%, la Francia il 21,8 l’Italia il 19,2 la Spagna 12,7. L’Italia finora non ha chiesto prestiti, ne ha dati molti e ogni giorno che passa, di fatto, sta sussidiando altri con gli alti tassi di interesse che paga nel mercato. Nel futuro l’Italia non avrà bisogno di aiuti e se dovesse farlo vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato nel sistema. Non li chiederà perché quest’anno, secondo le previsioni di primavera della Commissione europea, l’Italia ha un disavanzo pubblico che è il 2% del prodotto interno lordo, l’insieme dell’Ue è al 3,6%, la zona euro è al 3,2%, l’Olanda al 4,4%, la Francia 4,5%, la Germania solo lo 0,9%. E poi l’Italia avrà nel 2013 un avanzo in termini strutturali dello 0,6% e sarà uno dei primo Paesi ad averlo. C’è qualcosa di imperfetto nella zona euro se un Paese che sta facendo sforzi enormi al suo interno, ha ancora tassi di interesse così alti. Tra l’altro in un sistema che vogliamo sia fatto di incentivi e disincentivi, di premi e punizioni».
Se avesse dieci minuti per convincere un ipotetico «herr Muller» in Germania circa la bontà degli sforzi dell’Italia, cosa gli direbbe?
«Gli direi, caro herr Muller anzitutto rilassati, perché ti sei convinto o ti avranno convinto, che tu stai mantenendo un eccessivo tenore di vita degli italiani. Guarda, non è così perché non ci sono stati finanziamenti all’Italia e non arrivo a chiederti di credere al fatto che i tedeschi stiano traendo vantaggio per il fatto che la Germania riesce a finanziarsi a tassi così bassi, anche come effetto speculare degli alti tassi degli altri. E gli direi: caro herr Muller, convinciti di ciò che la cancelliera del tuo paese da qualche tempo sta dicendo e cioè che la Germania trae grandi vantaggi, come tutti i paesi, dall’integrazione europea. E’ vero che, essendo l’economia più grande, paga un po’ più degli altri in termini di bilancio dell’Ue, che comunque è l’1 per cento di tutta l’economia europea. Ma guarda, che l’economia della Germania – in sé così ben funzionante perché voi tedeschi siete molto bravi come lavoratori e risparmiatori e mediamente siete ben governati – tra gli ingredienti del suo grande successo negli ultimi 50 anni ha quello di essere al cuore di un grande mercato unico. E ha un altro vantaggio: da 10-12 anni è anche al centro di una zona di stabilità monetaria, mentre prima avevate le svalutazioni competitive che vi penalizzavano. E anche noi italiani abbiamo avuto molti vantaggi nell’essere associati con voi tedeschi; perché, un po’ per volta, abbiamo importato la vostra cultura della stabilità». Monti sorride: «Come vedete l’ho spiegato in meno di dieci minuti. Magari lui avrebbe qualche domanda, ma ad una seconda birra sarei ancora più persuasivo»
Cosa cambia in Europa con la presenza di un personaggio nuovo come il presidente francese Hollande? Pensa che il suo piano per la crescita da 120 miliardi sia sufficiente per una svolta?
«Sono molto incoraggiato dal vedere entrare il presidente Hollande da protagonista nella scena europea. Condivido la pressione che sta facendo perché l’Europa si doti di più efficaci politiche per la crescita, sono incoraggiato dal fatto che, rispetto alle posizioni tenute nella campagna elettorale, non abbia certamente in mente di “se passer” dal sistema della disciplina di bilancio. E sono incoraggiato anche dal fatto che vedo in lui, spero di non sbagliarmi, una Francia più disposta che in passato ad accettare certi avanzamenti nell’integrazione europea. E se ci fosse, ma credo non ci sarà, qualche difficoltà di comprensione tra il presidente Hollande e la cancelliera Merkel le posizioni del governo italiano possono essere di aiuto per la piena armonia tra questi due motori che da soli non bastano, ma se uno dei due si inceppa e se i due sono distonici, l’Europa ha grossi problemi».
Le politiche di rigore, nei vari Paesi, hanno un forte impatto sociale: come è possibile portarle avanti e nello stesso tempo evitare posizioni anti-europee, radicali o anche anticapitalistiche?
«In effetti c’è un grosso disagio sociale in tutti i Paesi e questo è di per sé negativo. Le popolazioni tendono ad attribuire alle integrazione europea buona parte di questi disagi. Anche perché tanti governanti non trovano di meglio che dire: sì, sì colpa di Bruxelles o dell’euro».
Lei ha detto che ci sono dieci giorni per salvare l’euro. In che senso? Se il vertice di Bruxelles non desse dei risultati, cosa esattamente potrebbe accadere? Quale il nightmare scenario?
«Esattamente come si sviluppa non lo so e non lo sa nessuno al mondo, anche se molti dicono di saperlo. Però ci sarebbero attacchi speculativi sempre maggiori contro singoli paesi, con accanimento su quelli deboli nel senso che non sono ancora in linea con i parametri europei, ma anche nei confronti di paesi non più deboli perché sono in linea con i parametri, ma si trascinano un alto debito dal passato come l’Italia. Gran parte dell’Europa si troverebbe a dover continuare a sopportare tassi di interesse molto alti, che poi gravano indirettamente anche sulle imprese e tutto questo è l’esatto contrario che serve per la crescita. In questa miscela, la frustrazione dei cittadini nei confronti dell’Europa aumenterebbe e quindi si accrescerebbe il paradosso seguente: per uscire bene dalla crisi dell’eurozona e dell’economia europea c’è sempre più bisogno di integrazione ma se il Consiglio europeo non aiuta presto i problemi dell’eurozona, la volontà delle opinioni pubbliche, dei governo e anche dei Parlamenti si rivolgerebbe contro quella maggiore integrazione che invece è necessaria. Un rischio che vedo persino nel nostro Parlamento, che tradizionalmente è sempre stato europeista e non lo è più. Ecco perché da un punto di vista finanziario, economico e politico si tratta di decisioni molto, molto importanti e qualche volta l’Europa sembra ispirare le sue azioni, che ci sono e vanno nella direzione giusta, ad un principio che si potrebbe definire “elogio della lentezza”, un principio che dovrebbe essere messo da parte».
Se un grande Paese come la Polonia decidesse di entrare nell’euro quali vantaggi ne potrebbe trarre?
«Penso che la Polonia debba entrare quando ritiene che sia il momento opportuno. E un grande paese che sta avendo una grande performance, superiore a quasi tutti gli altri, che ha voglia di maggiore integrazione e di maggiore influenza. Direi ai polacchi: a voi piace essere considerati tra i migliori d’Europa, credo che lo siate, potete essre più influenti nel plasmare il futuro dell’integrazione europea, se siete pienamente seduti al tavolo. Guardate il Regno Unito: può darsi che dal punto di vista economico di breve periodo la scelta di non appartenere all’euro abbia dato qualche vantaggio, ma l’influenza del Regno Unito nel determinare il grande orientamento della politica europea si è indebolito».
Intervista a cura di Philippe Ridet (Le Monde), Andrea Bachstein (Süddeutsche Zeitung), Pablo Ordaz (El Pais), John Hooper (The Guardian), Tomas Bielecki (Gazeta Wyborcza), Fabio Martini (La Stampa)