Su un muretto Charlie Brown appoggia i gomiti sulla sua malinconia e chiede a Linus: «Pensi mai al futuro?». «Oh sì, sempre» gli risponde l’amico. «E come pensi che vorresti essere da grande?» «Vergognosamente felice».
Mi piace iniziare questo intervento citando Schultz, perché credo che lo scambio di battute evidenzi perfettamente un’urgenza, troppo spesso trascurata all’interno del dibattito politico sulla crisi, almeno di quello italiano. La letteratura critica sul PIL e sulle visioni tradizionali dell’economia, ispirate puramente a una logica monetaria, è vecchia di quasi 40 anni. Eppure, a leggere gli editoriali dei principali giornali o ad ascoltare l’autorevole opinione di economisti ed esperti, siamo sempre alla solita amara ricetta: l’obiettivo è quello di far tornare il segno +.
Una seria riflessione sul contenuto di quel segno matematico e sulla sua interpretazione, però, non viene MAI fatto. Questo non è un articolo sulla decrescita felice, concetto spesso abusato dai mezzi di comunicazione: è solo il tentativo di portare al centro dell’analisi temi che hanno una forte rilevanza politica. In un momento di crisi, sospesi tra l’altalena nevrotica dello spread e il rigorismo cieco d’ispirazione merkeliana, con l’ingessatura delle politiche fiscali sancita, addirittura, all’interno delle costituzioni di mezza Europa, urge non solo fare una riflessione, ma fare proprio qualcosa.
Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002 e padre dell’economia della felicità, diceva in un’intervista di qualche tempo fa che, forse, spaventa proprio l’uso della parola felicità, e che sarebbe meglio concentrarsi, a contrario, sulla riduzione delle sofferenze umane. Le sue ricerche seminali, con il metodo della ricostruzione giornaliera, hanno consentito di costruire vere e proprie mappe della felicità umana, e hanno dimostrato che il benessere psico-fisico delle persone è molto di più che il consumo di beni in funzione di un reddito crescente.
A dimostrazione, comunque, che altrove qualche governo ha concretamente cominciato ad adottare una nuova visione, citiamo il caso dell’happiness agenda del governo Cameron.
In Inghilterra sono talmente avanti, nel dibattito, che si trovano già alla fase delle critiche.
La scorsa primavera, appena insediatisi, Cameron e Clegg annunciarono una svolta nella raccolta dei dati statistici dell’ISTAT inglese: accanto al tradizionale censimento, infatti, ne è stato fatto uno sulla felicità, coordinato dall’economista Richard Layard. Si trattava di dieci domande, somministrate a 200 mila persone con l’intento di mappare il benessere psicofisico (e la sua percezione) in Inghilterra, con l’idea di servirsi dei risultati per politiche effettive volte al perseguimento della felicità.
Come detto, l’happiness agenda è già sotto attacco del Labour, che vede nell’utilizzo della felicità un escamotage attraverso cui il governo tenta di far passare un’idea piuttosto borghese e middle class di benessere, finendo con il trascurare le esigenze di chi, senza lavoro in tempo di crisi, non ha le risorse per condurre una vita degna.
La questione, come risponde Layard e come direbbe anche Kahneman, è decisamente più complessa. E presenta molte sfaccettature. Il lavoro è una dimensione coessenziale alla realizzazione di una vita degna, un mattone indispensabile alla costruzione della felicità che, però, non solo è insufficiente, ma va anche riempito di contenuto sociale e relazionale. Tutte le ricerche, anch’esse non più recentissime, mostrano che le persone si realizzano all’interno di reti amicali forti; in una dimensione di coppia dove poter godere dell’intimità con il proprio partner; in una comunità densa, insomma, di relazionalità.
La questione non solo non è banale, ma richiede un balzo strutturale e pone anche una sfida stimolante alla concezione stessa dell’intervento pubblico in economia: perseguire la felicità, più che un contentino paternalista a persone in difficoltà, rappresenta la possibilità di concepire un nuovo stato sociale imperniato sul lavoro, ma attento alla dimensione relazionale delle persone. Significa porsi l’obiettivo di ridefinire strutturalmente la scala di valori di una società e, aristotelicamente, mettere in discussione il welfare a favore di un human flourishing in cui i mezzi materiali siano strumento importante e non fine ultimo dell’esistenza.
Questa, piaccia o non piaccia, è la sfida, tutta politica, che si pone alla nuova classe dirigente. E non riguarda solo la destra, ma anche e soprattutto la socialdemocrazia e il pensiero progressista.
È come quando ci si lamenta delle accise sulla benzina, correttamente, e tuttavia non si affronta mai un discorso più organico che faccia riferimento, per esempio, a un potenziamento del trasporto pubblico che venga incontro alle istanze ambientali.
I soldi sono importanti, maledettamente importanti.
Eppure tutti sappiamo che non contano soltanto loro nella realizzazione di una vita felice. Ci sono montagne di studi empirici a corroborare il buon senso. Quando saprà lo stato uscire dal mantra litanico di un’idea di crescita, figlia di una visione meramente utilitarista, e proporre un nuovo concetto di sviluppo?
La parola persona deriva dal latino per sonar: suonare attraverso. La visione thatcheriana del “non esiste nulla di simile a ciò che viene chiamato società” può trovare un contraltare, forse sconosciuto ai più, in questa citazione: “il grande piacere che deriva dalla conversazione e dallo stare in società nasce da una certa corrispondenza di sentimenti e di opinioni, da una certa armonia tra menti, che, come tanti strumenti musicali, si accordano e tengono il tempo l’uno con l’altro”.
È una frase di Adam Smith, il teorico della mano invisibile. E di molto altro, fatalmente negletto. Quando coglieremo l’opportunità di sostituire la metrica monetaria con una visione politica più umana e concreta?
*Research affiliate presso CRESA (Centro Ricerche Epistemologia Sperimentale e Applicata)