Quando i nostri amici tedeschi conquistarono davvero Varsavia

Quando i nostri amici tedeschi conquistarono davvero Varsavia

Il 5 ottobre 1939 Adolf Hitler entra nella Varsavia appena conquistata dalle sue truppe, i primi carri armati della Wehrmacht si erano affacciati ai sobborghi della città neanche un mese prima, per la precisione alle cinque del pomeriggio dell’8 settembre, accolti da un fitto lancio di bottiglie molotov. I polacchi avevano dalla loro un generale dal cognome giusto, Rómmel, ma dal nome sbagliato: faceva Juliusz (e si pronunciava Rummel) invece di Erwin. I tedeschi, invece, erano al comando di un generale prussiano dal cognome di chiara origine slava: Johannes Blaskowitz (Blašković è piuttosto diffuso in Croazia), ennesima dimostrazione dell’idiozia di chi pensa che il sangue sia identitario.

Varsavia viene attaccata da nove divisioni tedesche e, soprattutto, continuamente bombardata: sia dalle artiglierie, sia dalla Luftwaffe. I cacciabombardieri Junker Ju 87, più noti come Stuka, danno prova della loro mortale efficacia. Alla fine del mese di assedio il 12 per cento degli edifici della città risulta distrutto o danneggiato gravemente. I morti civili sono 25.800, i militari 6 mila: numeri che indicano chiaramente quali fossero gli obiettivi dei nazisti. I tedeschi, da parte loro contano circa 1.500 caduti, ma la cifra è solo stimata perché i comandi della Wehrmacht non hanno mai fornito una conta ufficiale.

La brutalità dell’assedio tedesco è testimoniata dalle immagini – foto e filmati – immortalati nella pellicola di un reporter americano, Julien Bryan, che entra a Varsavia il primo giorno di assedio, vive nel consolato americano abbandonato dai diplomatici e riesce ad andarsene il 21 settembre approfittando di una tregua accordata per far uscire dalla città gli ultimi cittadini di Paesi neutrali (la resa viene firmata sei giorni più tardi, il 27). Sue sono le immagini simbolo dell’assedio tedesco alla capitale polacca, sua è la foto di una ragazza che prega sul corpo insanguinato della sorella, uccisa dalle mitragliatrici di un aereo tedesco mentre stava nei campi a raccogliere patate (e con lei i tedeschi uccidono altre sei donne: volevano affamare la popolazione e quelle patate non dovevano essere mangiate da nessun polacco).

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I bombardamenti degli impianti dell’acquedotto privano i cittadini dell’acqua da bere e i pompieri dell’acqua per spegnere gli incendi provocati dall’abbondante uso di bombe incendiarie. I polacchi provano ad aver ragione delle fiamme usando la sabbia, ma devono salire sui tetti e quindi offrire un facile bersaglio alle mitragliatrici degli aerei. Scrive Hanson W. Baldwin, specialista militare del New York Times: «Le poche fontane della città ancora in funzione erano letteralmente assediate da lunghe code di persone che sfidavano il pericolo delle granate per procurarsi un po’ d’acqua. Cominciavano a diffondersi gravi epidemie, e accanto a queste la fame: non appena un cavallo stramazzava a terra ucciso dallo scoppio di una granata, subito qualcuno si precipitava a strappare dalle ossa la carne ancora calda».

Incredibilmente, la situazione militare dei polacchi non è disperata: pur battuti continuano a resistere, in qualche caso sono persino in grado di organizzare piccole sortite contro i tedeschi. Ma è la popolazione a cedere, proprio come i nazisti avevano previsto e pianificato. Quando poi si sparge la notizia che a est la Polonia è stata attaccata dai sovietici, si capisce che non c’è più nulla da fare.
Scrive ancora Baldwin: «Alle 14 del 27 settembre il generale Juliusz Rómmel, già comandante dell’armata di Łódź, nella sua qualità di decano degli ufficiali che si trovavano a Varsavia dichiarò la resa dei 140 mila soldati polacchi. Era tempo di farlo, anzi, la decisione era anche troppo tardiva. Varsavia aveva subito 27 giorni di bombardamento aereo e 19 di bombardamento a opera dell’artiglieria. Ogni giorno carriole piene di cadaveri, che nel sole del mattino apparivano come mucchi di manichini di cera, venivano sospinte verso grandi fosse comuni. Disseminati ovunque, giacevano i feriti a cui nessuno poteva badare, tavoli e pavimenti ricoperti di un’umanità gemente. Gli ospedali bombardati e in preda alle fiamme eruttavano fuoco e fumo, mentre feriti e infermiere morivano gridando. In un ospedale, quando il bombardamento cessò e un funesto silenzio discese sulla città martoriata, si vide un vero e proprio fiume di sangue scorrere lungo il corridoio, con le sue file di corpi straziati».

Dopo Varsavia si arrendono via via tutte le fortezze polacche. L’ultima a cadere è Hel, sul Baltico, che cede le armi il 1° ottobre. «La conquista della Polonia lasciò il mondo senza fiato», dice ancora Baldwin, «Una campagna alla quale prendevano parte più di due milioni di uomini si decise virtualmente in meno di una settimana, le sue più importanti battaglie furono combattute nel giro di appena due settimane, una nazione ne uscì distrutta in non più di un mese». È la Blitzkrieg, la guerra lampo, in cui alla mobilità e alla velocità si accompagna un altro imprescindibile elemento: il terrore.

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