Erik Rhodes
(8 febbraio 1982 – 14 giugno 2012)
Molto alto – oltre un metro e 90 – con un «fisico d’acciaio», ma sostanzialmente fragile, è morto a 30 anni e quattro mesi, a New York (e non a Los Angeles, come è stato scritto in qualche riassunto della sua vita). Per una crisi cardiaca. Il suo corpo – un mosaico di muscoli deformato dagli steroidi – era conosciutissimo negli Stati Uniti: Erik era l’attore porno gay più seguito, e uno dei modelli-marchio dei Falcon Studios, la celebre casa di produzione di quella specialità. Il suo nome originario era James Elliott Naughtin, di Long Island: una faccia mite, con primi piani molto espressivi (malinconia dominante), che facevano accantonare la stazza, l’altezza, la denominazione hard “versatile” (cioè attivo e passivo), eccetera.
Erik Rhodes (James Elliott Naughtin. Long Island, 8 febbraio 1982 – New York, 14 giugno 2012)
Ha fatto uno dei mestieri – e una carriera – fra i più contemporanei: tre strati di genere, cioè film, porno, e porno gay, o “X”. Dove l’arte può coincidere prima col corpo (statuario, maggiorato, o particolare, come succede alle star – donne e uomini – del cinema di routine), e poi con la capacità di non essere solo muscoli, o sessualità “versatile”. Sembra che Erik Rhodes (che strano cognome d’arte bianco-africano…) fosse un uomo infinitamente gentile e ironico, e che fosse in grado di usare questi due caratteri anche nel suo lavoro, nel recitare, variando, la parte che gli assomigliava: un ragazzone-statua-oggetto che poteva sguazzare, con un certo spirito, in un «areopago di altri pornoattori ipermuscolari che finivano insieme in un bagno di sangue».
È la scena ricordata dal regista Bruce LaBruce, nel suo film L.A.Zombie, dove Rhodes interpretava, al massimo del carattere, la parte di un “bambino cresciuto”, e molto padrone dei suoi mezzi espressivi: in particolare in una catena di scene da grand-guignol come quella. Era incapace di recitare per finta (e non è un ossimoro), e di fingere tout court, alla faccia dell’immagine “macha” che spesso gli si chiedeva di difendere: in un blog che si chiama “A romance with misery” ha raccontato la sua dipendenza dagli anabolizzanti, e dalle droghe, la depressione abbastanza stabile, e la certezza di morire presto.
Riceveva dagli internauti anche domande su come diventare come lui, a forza di steroidi: gli chiedevano le dosi. Si preoccupava per suo fratello gemello: «So che vive nella paura di ricevere un colpo di telefono che gli annuncia la mia morte». François Sagat, il più celebre pornoattore francese – nome di lavoro Yagg, noto anche per il tatuaggio a forma di scalpo – ha reagito con molta tristezza, ma denunciando, alla morte di Erik: «Un uomo troppo intelligente rispetto alla maggior parte dei suoi colleghi, e circondato da un vortice di incomprensione. La sua ironia era un rifugio naturale e disperato. Sempre molto sofisticato, ma ‘noir’. Ha avuto l’Arte e il Modo – scritti in maiuscolo – di raccontare, nei film e nella vita, cose fatali e terribili: sempre diretto, analitico, e anche ‘sociale’. Mai provocatore. La depressione era un fatto, e l’ha comunicata frontalmente. E la gente non è generalmente ingenua, ma perfida».
Roger Garaudy
(17 luglio 1913 – 13 giugno 2012)
O Ragaa: il suo nome da convertito musulmano, nel 1982, a quasi settant’anni. Era di Marsiglia, era nato protestante (o “ugonotto”), sarebbe diventato cattolico – per poco tempo – dopo una militanza comunista durata mezzo secolo. Filosofo di professione, attivista e propagandista per carattere, già stalinista e pensatore ufficiale e organico al Pc francese fino alla “primavera di Praga”, poi espulso dal partito nel 1970 come “deviazionista di destra”. Anche senatore, nei primi anni Sessanta, e soprattutto autore di una cinquantina di saggi: il più tipico – una specie di sintesi naturale della sua biografia – si chiama Les Mythes fondateurs de la politique israélienne, uscito nel 1995.
Roger Garaudy (Marsiglia, 17 luglio 1913 – Chennevières-sur-Marne, 13 giugno 2012)
Un pamphlet in tre parti, costruito, senza vergogna, su una pila di negazioni. Della Shoah, come progetto realizzato di sterminio (sostituito con l’“espulsione” degli ebrei fuori dall’Europa), delle camere a gas e delle testimonianze dei sopravvissuti (Garaudy arriva a scrivere che quei salvati hanno testimoniato “per sentito dire”), del numero di sei milioni di ebrei massacrati (da “ridurre” almeno di due terzi), del fatto che Norimberga sia stata un’aula di giustizia. Si parla anche del Diario di Anna Frank come di un probabile “falso”, e si conclude, classicamente, con la denuncia del “Shoah-business”: messo in piedi dalle lobby ebraiche e dagli Stati Uniti per influenzare media e opinioni pubbliche a favore d’Israele, del suo finanziamento, e della necessità della sua forza militare.
Fra i commenti più chiari, quello di Pierre Vidal-Naquet (1930-2006): «Garaudy non lavora, non ha mai lavorato: detto in termini moderati, è uno che prende in prestito i testi di altri. Il suo libro sulle fonti francesi del socialismo scientifico è un saccheggio di altri lavori. In quest’opera negazionista, si leggono cose incredibili: confonde, per esempio, Roosevelt con Eisenhower, e il numero dei morti di Auschwitz con quello complessivo della Shoah. È un libro opprimente, costruito su controsensi storici spaventosi». O quello di Edward Said: «Aderire alle visioni di Garaudy significa scegliere il campo di tutti gli elementi fascisti e retrogradi dell’estrema destra francese».
Prendendola più alla larga (e senza contare che il negazionismo – forma neonazista aggiornata – ha già 30 anni di vita, di pubblicità, e un costante avvenire), spiccano caratteri specifici in Garaudy, come le uniche ragioni interessanti per ricordarlo: è vissuto quasi un secolo, ha avuto l’ossessione dei “miti” del XX secolo (al punto da scriverne una “biografia”), ci ha sguazzato vendendosi come “solitario”, ma piuttosto bene, attingendo, di volta in volta, al supermercato delle idee avanzanti, più o meno di minoranza. Nei tempi della violenta decadenza dell’Urss (che entrava a Praga, e poi a Kabul), l’ex pensatore stalinista si faceva espellere come “eretico”, ma prendendo i voti: di un’altra fede, purché assoluta, e soprattutto non discount. In molti suoi scritti, variamente saccheggianti, l’ex pensatore ugonotto, poi ateo, aveva già esplorato il faccia a faccia, e gli eventuali punti di congiunzione fra marxismo e cristianesimo.
Travestendosi da cattolico, e soprattutto, e poco dopo, andando in Marocco a farsi musulmano, Garaudy centrava per sé stesso il marchio di mercato più al passo coi tempi per agire, e restare sulla ribalta. Diventava Ragaa, ma diversamente da altri convertiti all’Islam che avevano solidi mestieri – Cat Stevens e le sue canzoni, o il vecchio Cassius Clay e i suoi primati sul ring – sapeva solo assemblare propagande diverse: l’antisemitismo antico, profondo, travestito da negazionismo, la teoria del “complotto mondiale” ripresa per “smascherare” gli Stati Uniti e gli ebrei, il riscatto arabo e arabo-palestinese per denunciare l’ “illegittimità dello Stato sionista”, i metodi “nazisti” di Israele, e i crimini degli alleati, durante la Seconda guerra, peggiori di quelli nazisti.
Un bell’insieme di boiate, ma anche un impacchettato prodotto di marketing contemporaneo: tutto formulato nel pieno della novità iraniana (la religione che diventa Stato, e quello Stato che si fa avanguardia antioccidentale e antisionista), con tanto di pretesa da “dialogo fra civiltà”, e con un gruppo di ammiratori ai più alti livelli politici. Il colonnello Gheddafi che premia Garaudy-Ragaa per “i diritti umani”, Saddam Hussein che lo riceve a Baghdad, e il leader dell’Hezbollah in Libano, e il vicepresidente siriano a Damasco, e l’Abbé Pierre – vecchio amico – che si unisce, con scritti e dichiarazioni, a quella campagna. Di mercato e sostanzialmente fascista.
È morto a quasi cento anni, e poco tempo fa, ha manifestato la sua “fierezza” per essere rimasto fedele “al sogno dei suoi vent’anni”. Mica male come autodenuncia involontaria. Più spiritoso un articolo (sul sito Bibliobs, Le Nouvel Observateur. Culture, firmato da Robert Paulisson”) dove si scrive che «Roger Garaudy non è morto». E si analizza il problema: «Dicono che sia morto mercoledì mattina. Perché averlo annunciato solo giovedì? Che cosa è successo durante tutte quelle ore? Hanno approfittato di questo ritardo per camuffare la verità, per questa grande mistificazione? E poi, secondo le statistiche dell’Ined (l’Istituto francese di demografia, ndr) solo un terzo degli uomini di 98 anni muore. I due terzi, cioè la maggioranza schiacciante, hanno ancora una speranza di vita di 2,34 anni. Quindi, Roger Garaudy, nato nel luglio del 1913, non morirà, secondo logica, altro che nell’ottobre 2014».