Tra cinquant’anni i cittadini saranno diventati sudditi?

Tra cinquant’anni i cittadini saranno diventati sudditi?

Quand’anche uscissimo dalla crisi in cui è precipitata l’intera area dell’Euro – e, in primis, l’Italia, per demeriti principalmente suoi – avremmo vita stentata se non affrontassimo di petto, anche brutalmente, il tema del rapporto fra Stato e Cittadini, riportando il primo nel suo alveo naturale e rendendolo sempre e comunque soggetto alla legge e restituendo ai secondi la loro piena dignità e la consapevolezza di poter trovare nelle regole la prima difesa dei propri diritti di libertà.

Un quid ignorabile
Estate piuttosto calda quella del 1874. In senso meteorologico, per via dell’anticiclone sub-tropicale, ma non solo. Gli echi della prima esecuzione della Messa da requiem composta da Giuseppe Verdi e dedicata ad Alessandro Manzoni percorrevano ancora la penisola. A Parigi si era chiusa, da qualche settimana, la prima mostra dell’impressionismo a cui aveva partecipato, unico italiano, Giuseppe De Nittis. Sempre a Milano, assediato da nuovi e più insinuanti concorrenti, il Corriere delle Dame (primo grande periodico femminile italiano, ormai già diventato, di fusione in fusione, Corriere delle Dame e Giornale delle Famiglie. La Ricamatrice) si avviava mestamente alla chiusura.

L’Italia cambiava. Passato e futuro convivevano in un presente inquieto e mobile. Si manifestavano i primi sintomi del definitivo esaurirsi dell’esperienza di governo della Destra, da un lato, e, dall’altro, si intravedevano ormai con nettezza i contorni della fase politica successiva che sarebbe culminata nel trasformismo di Depretis. In quella stessa estate, a poco più di un decennio dall’Unità, l’ancora giovane Regno d’Italia diventava teatro di un dibattito politico e culturale i cui esiti avrebbero segnato per decenni il corso della politica economica italiana. Ne furono protagonisti Francesco Ferrara e Luigi Luzzatti. Il primo, allora deputato, fu con ogni probabilità il più autorevole economista italiano del Risorgimento: ministro delle Finanze per pochi mesi (nel 1867), senatore del Regno dal 1881 fino alla sua morte, caustico polemista, interprete radicale delle posizioni liberali tanto in politica quanto in economia.

Il secondo, già sottosegretario di Stato all’Agricoltura e deputato all’epoca dei fatti, incaricato della cruciale trattativa per il rinnovo dei trattati commerciali, sarebbe stato ministro del Tesoro a più riprese nel primo ventennio del secolo XX e presidente del Consiglio fra il 1910 e il 1911. Avrebbe aperto la strada al superamento dell’esperienza di governo liberale, al progressivo abbandono della strategia tracciata da Cavour e, infine, alla crescente presenza dell’operatore pubblico nella vita economica e sociale del paese.

Il tema di fondo di quel dibattito – dedicato al rapporto fra Cittadini e Stato più che alle modalità e alla natura dell’intervento pubblico in economia – sarebbe stato riassunto poi, a distanza di anni, dallo stesso Ferrara con le parole che seguono:

Per noi, vi hanno de’ governanti come e perché vi hanno agricoltori, proprietarii, avvocati, ecc.; governare è un mestiere come tanti altri; governanti son uomini in carne ed ossa che assunsero, sia di propria volontà, sia per espressa richiesta, l’incarico di produrre pace e giustizia, come il cacciatore produce la selvaggina ed il sarto i vestiti. Radicalmente diverso è il concetto da cui la Scuola autoritaria prende le mosse. Nel suo sociale sistema è supposto che, al di sopra degli individui consociati, esista un ente, un quid ignorabile, non visto, non sentito, impalpabile, creato apposta, non si sa quando né come, per sollevare e dominare su tutto l’ordine sociale.

Da quel dibattito Francesco Ferrara sarebbe uscito prima isolato e poi sconfitto. I “vincolisti” (per citare ancora Ferrara), per converso, avrebbero trionfato e Luigi Luzzatti si sarebbe affermato come un protagonista di primo piano della politica italiana. Il tema del rapporto fra Stato e Cittadino – per citare nuovamente Ferrara, il tema del cavouriano “senso della libertà” – sarebbe stato rapidamente accantonato. Anzi, ben presto dimenticato.

E – come suggerisce Giorgio Rebuffa nel capitolo che segue – nonostante la parentesi del secondo dopoguerra e la stagione einaudiana dovessero riproporlo a distanza di decenni all’attenzione del paese, sarebbe rimasto irrisolto fino ai giorni nostri, a distanza ormai di un secolo e mezzo dall’Unità. Del resto è l’esperienza quotidiana a riportarci alla mente i versi di Giuseppe Gioacchino Belli citati nelle pagine di apertura di questo volumetto. A farci spesso sentire esattamente come quei popolani cui Alberto Sordi – nelle vesti del Marchese del Grillo, una delle sue interpretazioni più note – si rivolge proprio con le parole del Belli.

Le pagine che seguono – raccolte su iniziativa dell’Istituto Bruno Leoni e in coerenza col pensiero della grande figura cui l’Istituto si richiama – costituiscono un tentativo di riportare il tema del “senso della libertà” al centro del dibattito politico ed economico italiano. Il lettore – anche quello più scettico, anche quello più sospettoso – non potrà non notare come la condizione di minorità degli italiani rispetto allo Stato non si esaurisca – come spesso si pensa – ai soli aspetti di carattere fiscale (di cui ai capitoli di Natale D’Amico, Serena Sileoni, Franco Debenedetti, Enrico Zanetti e Manuel Seri) ma investa molti altri campi della vita economica e sociale del paese. Il mercato del lavoro (di cui al capitolo di Pietro Ichino), la disciplina dei fallimenti (Maria Leddi), l’informazione (Marianna Vintiadis), il rispetto dei contratti (Giampaolo Galli), le modalità di regolazione di servizi cruciali per la vita del paese (dalla sanità discussa da Silvio Boccalatte e Lucia Quaglino, ai trasporti autostradali di cui al capitolo di Luigi Ceffalo, all’energia di cui scrive Carlo Stagnaro), la normativa urbanistica (Pasquale Medina), il patrimonio pubblico e la sua dismissione (Alessandro De Nicola). E temiamo che l’elenco sia ben lungi dall’essere esaustivo.

Anche agli spiriti meno inclini a una lettura liberale della società, i temi discussi nei capitoli che seguono dovrebbero apparire come molto simili a un piccolo “museo degli orrori”. Un vero e proprio “bestiario” espressione della debolezza, assai più che della forza, dello Stato. Spie del malessere che segna la società italiana ormai da decenni. Al tempo stesso, evidenza della strada da intraprendere.

Le penne del pavone
Certo, il rapporto fra contribuente e Amministrazione fiscale è il luogo dove emergono, per eccellenza, le asimmetrie di trattamento fra il Cittadino e lo Stato. Non c’è motivo per ripetere qui le argomentazioni che il lettore paziente troverà nelle pagine che seguono. Ma è forse utile riproporne il significato complessivo offrendone una lettura diversa che, probabilmente, più di altre, ne riassume il senso.

Prima di farlo, però, è necessario sgombrare il campo da un equivoco pericoloso, rassicurare i lettori facili all’indignazione, rasserenare i giornalisti da combattimento e gli intellettuali turbati, tranquillizzare gli uomini politici e/o i tecnici naturalmente predisposti allo sdegno. Sia chiaro, dunque, che tutti gli autori di questo volumetto, e in primis chi scrive, pensano che la lotta all’evasione fiscale sia compito primario di ogni governo, a prescindere, e che il rispetto dell’obbligo fiscale sia essenziale per il corretto funzionamento di un’economia di mercato. Essi pensano anche, a cominciare da chi scrive, che i funzionari dell’Agenzia delle entrate e degli Istituti di previdenza, i militari della Guardia di finanza, i dipendenti di Equitalia non facciano altro se non il proprio dovere rispettando e applicando le leggi vigenti. E che lo facciano essendo pienamente consapevoli della natura spesso – come dire? – peculiare (qualcuno direbbe anche aberrante) di quelle stesse leggi.

È infatti proprio questo il punto. Non è in discussione l’obiettivo. Né sono in discussione i comportamenti dei singoli. Sono in discussione le leggi e le procedure che dovrebbero consentire di perseguire quell’obiettivo e che dovrebbero indirizzare i comportamenti.

È bene su questo tema essere estremamente chiari: il rapporto fra lo Stato e il Cittadino non può essere definito, per fare solo un esempio, in lettere inviate da valenti funzionari dello Stato ai loro collaboratori (come è accaduto di recente). Ciò è, di per sé, espressione di un rapporto non paritario: attraverso i suoi uomini migliori il Sovrano graziosamente concede al suddito un trattamento più misurato ed equo. “Com’è umano lei!” avrebbe esclamato il Giandomenico Fracchia interpretato da Paolo Villaggio, in precario equilibrio nella sua poltrona-sacco. Ma quelle citate sono lettere che, lungi dal rappresentare la soluzione del problema, rappre sentano piuttosto l’espressione compiuta del problema stesso.

Tanto per cominciare, la natura paritaria del rapporto fra Stato e Cittadino deve manifestarsi nei comportamenti quotidiani dello Stato. Ma, soprattutto, la natura paritaria del rapporto fra lo Stato e il Cittadino deve trovare la propria espressione naturale nella lettera della legge.

Sotto il primo profilo, lo Stato italiano appare, agli occhi del cittadino, quotidianamente inadempiente e regolarmente impunito per le sue inadempienze. Appare tale agli occhi del cittadino che non ottiene giustizia, o che ricorre alla vigilanza privata perché l’ordine pubblico non è garantito come dovrebbe, o che vede nella istruzione privata o nella sanità privata l’unica costosa alternativa a un pubblico che ha imparato a chiedere (se non a pretendere) ma spesso e volentieri arrogantemente si rifiuta di dare. Ci si lamenta spesso dello scarso senso civico degli italiani, ma non altrettanto spesso si riconosce come sia lo Stato stesso, in tutte le sue articolazioni, a manifestare uno scarso civismo.

Soprattutto è la legge il luogo in cui Stato e Cittadino devono vedere sancita la propria parità. E le norme entro le quali da quindici anni a questa parte si esplica l’attività dell’Amministrazione sono, in campo fiscale, norme più da stato di emergenza (se non di assedio) che da stato di diritto. L’elenco è lungo ed è a tutti noi ben noto: alcuni dei capitoli che seguono ne forniscono degli esempi. Si tratta, spesso e volentieri, di norme che non sarebbero nemmeno lontanamente concepibili in un rapporto fra privati (cioè in un rapporto fra pari) e che hanno definitivamente consolidato da quindici anni a questa parte la trasformazione del rapporto fra Stato e Cittadino in un rapporto diverso: quello fra il Sovrano e il suddito.

Ma c’è di più. Da quindici anni a questa parte, governanti di ogni tendenza hanno detto e ripetuto che questa trasformazione era ed è necessaria e dovuta se si voleva e se si vuole attaccare e sconfiggere il fenomeno dell’evasione fiscale. Un obiettivo – lo abbiamo già detto e, per evitare malintesi, lo ripetiamo – che dovrebbe comparire ai primissimi posti nell’agenda di qualunque governo della Repubblica. E però, a distanza di quindici anni, i comunicati delle amministrazioni competenti ci ricordano a cadenza regolare che da un lato cresce significativamente il recupero di imponibili evasi e, dall’altro, gli imponibili evasi rimangono elevati se non tendono addirittura a crescere. Si converrà che c’è, forse, qualcosa che non torna. Ben vengano, dunque, i manuali di comportamento e le istruzioni agli uffici territoriali. Ma il problema – lo ripetiamo – non è il bon ton dell’amministrazione finanziaria. Il problema è la natura stessa dei rapporti fra lo Stato e il Cittadino che i governi degli ultimi quindici anni – tutti, indistintamente, incluso l’attuale – hanno fatto propria. Una impostazione di cui governi di ogni forma e colore non sanno, non possono o non vogliono nemmeno valutare costi e benefici.

Quest’ultimo è un tema ancora molto caldo. Nei primi mesi del 2012, la delusione di molti italiani è stata palpabile. Questa volta ci avevano veramente creduto. L’idea che i proventi della lotta all’evasione venissero restituiti ai contribuenti leali sotto forma di minori imposte era sembrata, per una volta, vicina. E invece niente. Meglio evitare di «alimentare aspettative che non possono essere soddisfatte» ha osservato, prudente, il presidente del Consiglio. «Salta il fondo taglia-tasse» hanno titolato, più espliciti, a nove colonne molti quotidiani.

Per la verità non è saltato proprio nulla. Il fondo taglia-tasse introdotto nella legge di conversione del decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011, a seguito di un emendamento di chi scrive, è ancora lì. Recita infatti l’articolo 2, comma 36, di quel decreto: «A partire dall’anno 2014, il Documento di economia e finanza conterrà una valutazione delle maggiori entrate derivanti, in termini permanenti, dall’attività di contrasto all’evasione. Dette maggiori entrate, al netto di quelle necessarie al mantenimento del pareggio di bilancio ed alla riduzione del debito, confluiranno in un Fondo per la riduzione strutturale della pressione fiscale e saranno finalizzate alla riduzione degli oneri fiscali e contributivi gravanti sulle famiglie e sulle imprese». Non ci risulta che sia stato abrogato.

Quel che dunque il Governo in carica ha evitato di fare è stato anticipare, al 2012, gli effetti di quella norma che – com’è evidente e com’è ovvio – subordinava ogni ipotesi di riduzione delle imposte al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, imponendo agli esecutivi futuri un elementare obbligo di trasparenza ex post. Come accade ormai da quindici anni, anche per i prossimi due, dunque, i risultati della lotta all’evasione rimarranno un mistero glorioso. Comunicati trionfali si succederanno a comunicati trionfali ma, ancora una volta, non ci sarà dato sapere se e quanto gettito sarà stato acquisito “in termini permanenti” alle casse dello Stato. Peggio, si potrà dire che le risorse provenienti dalla lotta all’evasione non sono “quantificabili” senza dover, di conseguenza, ammettere che potrebbero essere anche trascurabili (con ciò privandosi, poi, della possibilità di valutare le modalità con cui viene oggi condotta la lotta all’evasione). Come i precedenti, anche il Governo in carica ha scelto la strada – tutta politica – che consente di farsi belli con la lotta all’evasione senza pagarne alcun costo. Di farsi belli con le penne del pavone.

È bene essere chiari: il fondo varato nel settembre 2011 non ha nulla a che fare con i famigerati “tesoretti” di qualche anno fa. Sostenerlo significa prendere un clamoroso abbaglio. Era ed è, prima di ogni altra cosa, una misura di trasparenza: ogni governo – il Governo attuale più di altri, forse – dovrebbe sentire il dovere di rendere conto ai cittadini della propria attività. Tanto più quando questa riguarda il pagamento delle imposte ed è condotta con modalità spesso invasive. Ci perdoni il presidente del Consiglio: non farlo non è un atto di prudenza ma, purtroppo, solo di arroganza. L’ennesimo atto di arroganza del Sovrano nei confronti dei Cittadini.

Si obietterà che la bozza di riforma del Fisco, approvata dal Consiglio dei ministri in data 16 aprile 2012, prevede che il Governo rediga «annualmente, all’interno della procedura di bilancio, un rapporto sulla strategia seguita e sui risultati conseguiti sul fronte delle misure di contrasto all’evasione». Ma obiettarlo sarebbe un po’ come darsi la zappa sui piedi. Si chiede infatti al Governo di certificare se stesso e non si associa alla certificazione la “penalità” che sarebbe data dal dover collocare il gettito recuperato nel fondo taglia-tasse. No. Meglio non obiettare nulla. Meglio conservare un dignitoso silenzio.

Il Fisco – dovremmo tenerlo sempre a mente – è il luogo dove si misura concretamente il rapporto fra lo Stato e il Cittadino. Il contrasto dell’evasione ne fa parte integrante. Ma la lotta all’evasione può essere condotta in modi diversi. La strada scelta da circa un quindicennio poggia su alcuni capisaldi. Un’azione sempre più puntuale e rigorosa da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’INPS e della Guardia di finanza frutto di maggiori mezzi e diverse e più adeguate strutture ma anche di una normativa sotto molti punti di vista “emergenziale” che non sarebbe, nemmeno per sbaglio, concepibile nei rapporti fra privati. Una normativa frutto del sospetto e del pregiudizio nei confronti del contribuente. L’espressione di una idea di Stato sempre e comunque sovraordinato rispetto al Cittadino. Il quid ignorabile di cui scriveva Francesco Ferrara nel 1884. Ci auguriamo di sbagliare, ma quella intrapresa da quindici anni appare ogni giorno di più come una strada senza uscita che conduce, per un verso, alla rivolta fiscale e, per altro verso, porta l’Amministrazione a rincorrere un obiettivo che, se non si allontana, non sembra nemmeno avvicinarsi. 

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