Forse sbaglieremo, ma a noi vengono i brividi quando pensiamo a una repubblica fondata sulle intercettazioni. Su conversazioni telefoniche che finiscono su quotidiani. Non ci piacevano quando si parlava di travestimenti e seratine peccaminose, figuriamoci quando si discute di una pagina delicatissima della nostra storia patria. Nessuno è al di sopra della legge, ha detto Antonio Di Pietro. È vero, nessuno lo è.
Ma la legge deve procedere secondo criteri di giustizia, di tutela delle garanzie, di rispetto della verità, non per sensazionalismi. Questo è il punto, ancor prima dell’eventuale coinvolgimento del presidente della Repubblica. Un sistema che di fatto si tramuta in un’inversione dell’onere della prova. Io ti ascolto, diciamo ti spio, e poi smisto i brogliacci a un quotidiano; poi ci devi pensare tu a difenderti. Il processo è già cominciato anche se non sei imputato. È la giustizia made in Ingroia, baby.
Quella giustizia rispetto alla quale il Presidente della Repubblica – sì, proprio Giorgio Napolitano – ha persino dovuto arrivare a difendersi. Ha dovuto ribadere la ferma convinzione di aver agito sempre in modo onesto, corretto, e nell’interesse del paese e con il senso dello stato. Lo ha dovuto fare perchè, ormai da giorni si rincorrono accenni alle sue conversazioni in cui, in qualche modo, si sfioravano o affrontavano nodi della presunta (ovviamente realistica, in Italia) trattativa tra Stato e mafia. Quella stessa trattativa che è spesso oggetto delle conversazioni tra il consigliere di Napolitano Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino.
Allora, Napolitano si sa difendere benissimo da solo, e asempre da solo sa difendere il paese e la sua dignità. Lo ha già fatto, lo farà ancora. A noi, però, viene solo un’osservazione che vorremmo considerare “finale” rispetto a questa vicenda, che vive delle confusioni tra etica e diritto rese palesi da Ingroia, e della voglia di sangue fresco che chi non ha più Berlusconi con cui giocare vorrebbe vedere correrei ai massimi piani: perfino sul Colle.
E dunque, questa vicenda ha in qualche modo finito con l’accostare il nome di Giorgio Napolitano a quello della Mafia. Già, per un passaggio logico non scontato ma naturale, soprattutto al pubblico più ampio, il coinvolgimento di Napolitano nella trattativa stato-mafia finiscer con l’avvicinare il nome del Presidente e della sua storia politica a quello del tumore che l’Italia si porta in seno dalla sua fondazione, cioè la mafia siciliana.
Bene, se qualcuno sa, pensa di poter dire o dimostrare, che il presidente della Repubblica ha anche solo una volta agito in modo men che netto e trasparente nei confronti di Cosa Nostra, in modo men che chiaro a vantaggio dello stato, allora lo dica adesso, in modo chiaro, netto e argomentato. Ma se così non è, se stiamo giocando con la dignità di un paese per un po’ di visibilità e qualche voto in più, allora forse sarebbe meglio stare zitti. Non prima, però, di avere chiesto scusa.