Era la locomotiva dell’economia spagnola. La Germania iberica. La tigre del Mediterraneo, famosa per il suo dinamismo economico e le prodezze atletiche del Barça. Nel 2010, in base alle stime dell’Instituto Nacional de Estadística, il suo Pil valeva oltre 195 miliardi: più di quello finlandese. Nel 2009, a parità di potere d’acquisto, il suo Pil pro capite era di 28.200 euro. Un dato non lontano da quello del Baden-Württemberg (29.500 euro), e superiore al Pil pro capite veneto (28.100 euro) o fiammingo (27.500 euro).
Ma ora la Catalogna, uno dei “quattro motori per l’Europa”, sembrerebbe pronta a chiedere aiuto finanziario allo Stato centrale. Piegata da un debito di quasi 42 miliardi di euro. Pari al 20,7% del suo Pil, e a circa il 30% dell’intero debito delle comunidades autónomas, ossia le 17 entità regionali che costituiscono l’ossatura della Spagna post-franchista. In un Paese come la Spagna che ha un Pil nazionale di circa 1.200 miliardi di euro.
«Io non vedo il mio futuro in Catalogna. Quando avrò finito gli studi, emigrerò» racconta, in un buon italiano, la catalana Maria Soler, 21 anni, battagliera studentessa di sociologia. «In Spagna ci sono pochissimi posti di lavoro, per lavorare devi avere l’aiuto dei genitori, o un enchufe (sorta di raccomandazione). Ma se noi giovani ce ne andremo, chi pagherà le pensioni degli anziani?». Maria viene da Moià. Un bel paesino catalano che nel 2011 è diventato famoso in tutto il mondo per il suo enorme debito: 25 milioni di euro, pari al 400% delle sue entrate. «Sono preoccupata per il mio futuro. Tanto» commenta accigliandosi. «Sto studiando molto, ma non so se tutto questo servirà».
La preoccupazione di Maria è più che giustificata. Nelle casse catalane non c’è un euro. I bond della regione sono spazzatura (basura in spagnolo, o meglio: in castigliano). La disoccupazione, soprattutto giovanile, infuria. Sui giornali si legge che tre ospedali catalani potrebbero smettere di pagare gli stipendi, come in Grecia.
È la fine del “modello catalano” che fino a pochi anni fa furoreggiava anche in Italia, soprattutto al nord. Nel 1998, in un’intervista al Corriere della Sera, lo storico president della Generalitat (governo catalano), Jordi Pujol, decantava la sua regione, dotata di «una struttura sociale ed economica diversa da altre parti della Spagna». Oggi queste parole suonano remote come un verso di Cerverí de Girona, il grande trovatore catalano del Tredicesimo secolo.
Per gran parte degli spagnoli i guai della Catalogna sono uno shock: è un po’ come se la Lombardia dovesse batter cassa a Roma. È assai probabile però che qualche nazionalista spagnolo stia gongolando, crogiolandosi nella Schadenfreude: secondo il Banco de España la capitale, la tanto vituperata Madrid, ha il più basso debito di tutta la Spagna, meno di 16 miliardi di euro (pari a quasi l’8% del suo Pil). Il desplome de la Generalitat, il collasso della Generalitat, come lo ha definito l’ex direttore aggiunto de El Pais Xavier Vidal-Folch, è però un trauma soprattutto per i cittadini della Catalogna. «Chiedere aiuto al governo centrale è un colpo mortale all’autostima dei catalani – osserva seccamente il giornalista di Barcellona Eusebio Val, corrispondente in Italia del quotidiano La Vanguardia.
E in effetti c’è dell’incredibile nella crisi della Catalogna, terra di mercanti e banchieri sin dal Medioevo. Perché la regione assomiglia più a una piccola California mediterranea che a una nuova Grecia. Vanta un tessuto industriale sano e diversificato, che esporta in tutta Europa; una manodopera di qualità; manager capaci. È una meta turistica straordinaria, può contare su eccellenti ospedali, università e centri di ricerca, nonché su realtà high-tech come la multinazionale farmaceutica Almirall. Barcellona è universalmente considerata una città bella, dinamica e cosmopolita. Nel ranking delle Top 25 European Cities of the Future elaborato da fDi Magazine, è la sola città dell’Europa meridionale ad apparire.
«La Catalogna è, per tradizione, una delle regioni più attive, moderne e innovative della Spagna. Ed è anche una delle più aperte ai mercati esteri», conferma a Linkiesta Jorge Calero, professore di economia applicata all’Università di Barcellona. «Tuttavia, durante la bolla immobiliare conclusasi nel 2007, il settore edilizio è cresciuto troppo, sia in termini di risorse finanziarie sia umane. Oggi la principale debolezza dell’economia catalana deriva da quella crescita: il settore finanziario ha alimentato il settore edilizio e i consumi delle famiglie con un’enorme quantità di credito. Credito che ora non è facile da recuperare; al contempo però il settore finanziario si è indebitato all’estero, proprio per fornire risorse al settore edilizio. Il debito esterno delle banche è il maggior fardello dell’economia catalana (e spagnola)».
Il professor Antonio Argandoña è docente di economia e titolare della cattedra “la Caixa” di corporate social responsibility e corporate governance alla IESE Business School, presso l’Università di Navarra. Secondo lui le radici della crisi catalana «sono le stesse che in altri governi regionali: la bolla immobiliare, l’euforia dell’ultimo decennio, l’eccesso di spese dei governi regionali e locali, e un cronico problema di finanziamento dei governi regionali, cioè il fallimento del sistema di finanziamento del governo decentralizzato. Se questi problemi sono più grandi in Catalogna che nelle altre comunità autonome, la causa è, probabilmente, la mancanza di disciplina fiscale del precedente governo di sinistra».
Quando si parla della crisi con i cittadini catalani, la parola ladrillo, mattone, è una delle più ripetute. Viene spesso pronunciata con un’enfasi particolare, come se fosse una bestemmia. Anche dai ventenni, assai più disincantati e preoccupati di quanto dovrebbero essere alla loro età. «La Spagna – dice Oriol Ges, 22 anni, studente catalano di economia all’Università Autonoma di Barcellona – ha cercato di vivere sopra i suoi mezzi. La bolla ha permesso agli spagnoli di ambire allo stile di vita dei francesi. Mi ricordo quando Zapatero diceva in televisione che il Pil pro capite spagnolo si stava avvicinando a quello della Francia».
Oriol ha ragione. Nell’autunno del 2008, mentre l’America veniva travolta dalla bufera dei mutui subprime, Zapatero si vantava dei successi del suo Paese: «La Spagna ha il sistema finanziario più solido del mondo»; «Il nostro reddito pro capite è di 35mila dollari, più dell’Italia, una cosa che deprime molto il primo ministro Berlusconi». Era come se il capo del governo spagnolo avesse perso il contatto con la realtà. Si può dire a sua discolpa che non era l’unico, in Spagna. La febbre del mattone, che nella prima metà del XXI secolo aveva contagiato pure pensionati e disoccupati (800mila gli appartamenti costruiti in Spagna nel 2005), aveva lasciato pesanti strascichi sull’identità collettiva spagnola. Ad esempio l’illusione di aver raggiunto un benessere nordeuropeo, solido e rassicurante come i muri di una palazzina della Costa Brava.
Per Val la crisi immobiliare è anche figlia di un problema culturale. «I cittadini catalani e spagnoli pensavano che il valore del mattone non si sarebbe mai abbassato. Per anni hanno creduto a ciò come a una religione. Ancora oggi, per molta gente, è difficile accettare che il mattone possa perdere valore. Se però guardiamo alla storia vediamo che crisi di questo genere si sono verificate in Giappone, Gran Bretagna, Stati Uniti – e aggiunge – per molti anni tanta gente che non aveva uno stipendio alto ha comprato una casa, magari anche una seconda, al mare o in montagna. Per farlo si indebitavano, ma erano convinti che fosse una buona scelta perché il valore dell’immobile avrebbe continuato a salire».
Casa Mila dell’architetto Antoni Gaudí
Val non è il solo a pensarla così. Il dottor David Gonzalez Ovejero è ricercatore presso la Université catholique de Louvain, in Belgio. È della Valencia, un’altra comunità autonoma colpita duramente dallo scoppio della bolla immobiliare (e infatti il suo debito regionale sfiora i ventuno miliardi di euro). «La Valencia è una perfetta sintesi di tutte le cattive abitudini dell’economia spagnola negli ultimi vent’anni: un’economia basata sull’edilizia e la speculazione fondiaria. In quel periodo arrivava un sacco di denaro, ma non si capiva che non sarebbe durato per sempre. Invece di investire in aziende manifatturiere o tecnologiche, tutto quel denaro era speso senza alcun criterio», racconta il dottor Ovejero con indignata lucidità. « Inoltre il governo valenciano faceva populismo organizzando grandi eventi (come la Formula1, la visita del Papa, l’America’s Cup) e costruendo giganteschi (e talvolta non necessari) complessi non redditizi come la Ciutat de les Arts i de les Ciències o simili».
Al pari di Oriol e Maria, poco più giovani di lui, anche Ovejero non nasconde la sua paura per il futuro della Spagna: «È da un po’ di tempo che ho capito che non sarei potuto tornare in Spagna per fare ricerca lì. La spesa per la ricerca e lo sviluppo, infatti, è stata la prima cosa a essere ridotta drasticamente – racconta – ma ora che stanno anche riducendo i servizi sociali di base, come la sanità e l’istruzione, sono anche preoccupato per la mia famiglia e i miei amici. Per esempio, i miei genitori sono pensionati e non sarei sorpreso se gli riducessero la pensione. Tutta questa incertezza mi preoccupa».
La crisi catalana era nell’aria già da tempo. È almeno dal 2010 che la Generalitat si trova con l’acqua alla gola. Eppure proprio in quel periodo l’allora ministro delle finanze catalane Antoni Castells dichiarava: «Non si può dire che siamo in bancarotta. Nessuno lo direbbe in un Paese serio». Oggi Castells, del Partito dei socialisti della Catalogna, ha perso il suo lavoro. Al suo posto c’è Andreu Mas-Colell, un apprezzato economista. I problemi però sono gli stessi. Anzi, sono peggiorati.
«La ragione per cui la Catalogna deve ora chiedere aiuto a Madrid deriva da alcune strane caratteristiche del modo in cui è stato allestito il sistema delle comunità autonome in Spagna», spiega a Linkiesta l’economista Antonio Ciccone, professore ordinario alla Universitat Pompeu Fabra di Barcellona. «Nel caso della Catalogna, una grossa questione è che le tasse pagate dalla Catalogna non ritornano in modo appropriato sotto forma di investimenti governativi. Secondo le stime migliori, ciò implica che ogni anno circa il 9% del Pil catalano finisce nel resto del Paese e non torna più. Mettiamo ciò in prospettiva. Se questo dato fosse ridotto al 4% (una cifra ancora alta, per esempio secondo gli standard redistributivi federali tedeschi) la Catalogna avrebbe risorse annue aggiuntive per circa lo 0,9% del Pil spagnolo. Il debito catalano è circa il 4% del Pil spagnolo. Come si vede potrebbe essere cancellato molto rapidamente in questo caso: in appena 4 anni!».
Per il professor Ciccone, è cruciale che la Spagna ristrutturi «lo Stato delle autonomie, eccessivamente redistributivo. Le risorse che escono dalla Catalogna, in particolare, non sembrano sempre essere impiegate produttivamente altrove. Questo sta costando alla Spagna competitività. Invece di avere un buon sistema ferroviario che colleghi i porti di Barcellona e Valencia all’Europa, per esempio, il denaro dei contribuenti catalani è stato utilizzato per costruire eccellenti autostrade che non usa nessuno». Molti cittadini catalani pensano che la loro regione sia stata troppo generosa con il resto del Paese. Questo sentimento è oggi esacerbato dalle rigide misure di austerità varate dalla Generalitat: «Come nel resto della Spagna, le risorse fiscali si sono contratte notevolmente a causa della crisi e, più specificamente, al crollo del settore delle costruzioni», spiega il professor Calero. «Le politiche restrittive decise dal governo autonomo dall’inizio del 2011 (dopo l’arrivo al potere del partito liberal-conservatore), combinate con quelle altrettanto restrittive decise dal governo centrale dall’inizio del 2012, non aiutano a risolvere la crisi economica e, quindi, quella fiscale».
«Quando in Spagna si tornò alla democrazia la Catalogna era la regione più ricca – si sfoga Oriol – ora siamo, nella classifica del reddito pro capite, la quarta regione (la precedono i Paesi baschi, la Navarra e Madrid). Questo non è solo colpa della crisi. La Spagna ha due crisi: quella bancaria e finanziaria. Noi ne abbiamo tre: quella bancaria, quella finanziaria e quella spagnola. Se fossimo indipendenti e le nostre tasse rimanessero in Catalogna, non ci sarebbero tagli così forti agli ospedali, all’istruzione…».
In Catalogna è opinione diffusa che il sistema istituzionale spagnolo, così come è strutturato oggi, limiti la capacità della regione di reagire in modo efficace alla crisi. Un esempio di ciò lo offre Ciccone: «Recentemente la Generalitat ha messo un ticket di un euro per le prescrizioni mediche, allo scopo di incrementare le entrate e ridurre le spese sanitarie, ma questo è stato contestato dal governo spagnolo». Ancora: «Il governo catalano ha reagito alla crisi prima di quello spagnolo. Per esempio il settore dei dipendenti pubblici è stato tagliato prima dei recenti tagli di Rajoy, che ha ritardato tale decisione in modo ridicolo. Se non altro il governo catalano ha reagito più velocemente. Ma il grado di libertà è limitato dal governo spagnolo». Ciccone trova poi assurdo che: «la Catalogna dipenda dai versamenti del governo centrale, che spesso arrivano in ritardo o proprio non arrivano, come l’anno scorso quando il governo spagnolo non ha versato una grossa somma che aveva promesso. Questo rende difficile alla Generalitat una corretta pianificazione».
Secondo Val, che non si considera un nazionalista catalano «i nazionalisti hanno una parte di ragione quando parlano di un problema di redistribuzione fiscale». Per anni, nota con pacatezza «la Catalogna ha molto contribuito allo sviluppo delle regioni più povere della Spagna, ma sono tanti i catalani convinti che non si possa più continuare così, e che si debba avere più autonomia fiscale, come nei Paesi baschi e in Navarra».
Per i catalani è doloroso chiedere aiuto a Madrid. Tuttavia è indispensabile, perché come spiega Calero: «Le recenti emissioni di bond del governo autonomo hanno avuto tassi molto alti, che non sono più sopportabili. Il governo centrale ha invece ancora un accesso (molto limitato) ai mercati finanziari e, soprattutto, può contare sui fondi europei, benché in questo caso il “prezzo da pagare” sia molto alto, quanto a misure restrittive imposte».
A detta di Val, chiedendo aiuto allo Stato centrale, Barcellona allontana la possibilità di ottenere una maggiore autonomia fiscale, almeno nel breve periodo: «Madrid darà l’aiuto in cambio della possibilità di controllare la spesa, verificare dove e come si investe il denaro. La Catalogna avrà le mani legate».D’altra parte pure la Generalitat ha le sue colpe. «Il governo catalano ha creato negli anni una struttura amministrativa troppo grande, troppi enti, quattro o cinque canali televisivi pubblici che costavano molto denaro… tutto questo nasceva dal desiderio di autonomia politica. È vero che siamo un territorio con una sua lingua e una sua storia, però abbiamo fatto gli stessi errori di quel governo centrale che abbiamo sempre tanto criticato. Abbiamo creato troppa burocrazia, c’è stata corruzione, un’eccessiva centralizzazione a Barcellona. Sembra ironico, ma l’autonomia non è una formula magica, si possono commettere gli stessi errori del governo centrale».
Per fortuna qualche segno di cauto ottimismo c’è. Come sottolinea il professor Argandoña «le aziende catalane sono ora alle prese con vari problemi (mancanza di attività, alta disoccupazione, un sostegno inferiore del welfare state ecc…), e c’è un sentimento di disperazione. Penso però che molte aziende siano in una situazione di “stand by”: hanno congelato gli investimenti, ridotto le spese e si sono adattate a un’economia debole. E questo significa che sono preparate per la ripresa». L’economista si dice «molto fiducioso del potenziale della Catalogna per il futuro. Spero che questo potenziale si materializzerà nella ripresa non appena le circostanze cambieranno». Lo sperano anche milioni di catalani.