L’aumento di capitale che avrebbe dovuto chiudere la fase del commissariamento si è chiuso lo scorso 24 aprile. Ma a dispetto delle attese, gli uomini mandati dalla Banca d’Italia sono ancora alla Carim. Erano arrivati lì il 29 settembre 2010. Con la ricapitalizzazione sono stati raccolti 75,15 milioni di euro, cifra considerevole per il piccolo istituto di credito romagnolo ma ancora distante dai 104 milioni richiesti dal piano dei commissari straordinari di Bankitalia. Per tagliare il traguardo, era prevista l’emissione di un prestito obbligazionario subordinato. Del quale, però, si sono perse le tracce. La Vigilanza della Banca d’Italia non ha più fatto sapere nulla. Ma l’incertezza non può durare a lungo. Il prossimo 29 settembre scade infatti il biennio di durata massima del commissariamento. E alla Fondazione Cassa di risparmio di Rimini c’è una certa trepidazione per riprendere il controllo della banca.
Per mesi i principali attori della vita economica, politica e sociale della comunità riminese si sono spesi per sponsorizzare la ricapitalizzazione e difendere così la territorialità dell’istituto. La risposta dei riminesi è stata però decisamente inferiore agli sforzi profusi: solo 1.752 sui 7.072 soci che ne avevano diritto hanno infatti messo mano al portafoglio. Lo stesso Stefano Vitali, presidente della Provincia di Rimini, ammette che «qualcuno (l’allusione è quasi certamente a Confindustria, ndr) poteva fare di più e comunque va rimarcato il fatto che i piccoli azionisti e pezzi significativi di economia locale hanno fatto un grande sforzo». Per Vitali «è comunque essenziale che Carim torni ad avere una vocazione territoriale, persa per strada negli ultimi anni».
Chi ha parlato espressamente di flop rispetto all’esito della ricapitalizzazione è invece Alessandro Berti, professore riminese di economia degli intermediari finanziari all’Università di Urbino: «Mancano 43 milioni di euro, mancano molti vecchi azionisti, mancano tante cose, manca anche la sincerità di ammettere un sostanziale flop, facendo finta che un prestito obbligazionario subordinato, sempre meno utile ai fini del rispetto dei regolamenti prudenziali di Basilea 3 sia assimilabile al capitale facente parte del cosiddetto Tier 1». Berti è stato molto critico: «Si è raccolto quel che la Fondazione ha seminato, andando a chiedere in maniera del tutto irrituale a destra e a manca di aderire alla ricapitalizzazione senza uno straccio di piano industriale in mano, senza un’idea di alleanza con la Cassa di risparmio di Cesena o con la Banca delle Marche…c’è poi da considerare che all’orizzonte si sta profilando la candidatura di Alberto Mocchi, come nuovo direttore generale di Carim: si tratta certo di una persona tecnicamente competente in fatto di gestione di personale, ma amministrare una banca significa avere un background ben diverso».
Non è poi detto che Mocchi la spunti, nonostante l’aperto sostegno della Fondazione Carim, azionista di riferimento di Carim. Perché il nome di Mocchi è recentemente spuntato fuori da un’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Monza sul caso Banco di Desio, a seguito di un esposto presentato da un ex dipendente della filiale parmense della banca. L’ipotesi di reato è associazione a delinquere e ricettazione. Secondo il racconto dell’ex dipendente, il Banco di Desio proponeva alla clientela più facoltosa servizi extra per portare fondi neri all’estero. Tra gli indagati, il presidente della Banca e, appunto, l’ex direttore generale Mocchi. La scelta di quest’ultimo confermerebbe l’assenza di un “cambio di registro” che ha costituito uno dei motivi per cui, nella partita sulla ricapitalizzazione, Confindustria si è tirata indietro e con essa un gruppo, per la verità sparuto, di industriali.
Il presidente della Provincia è però convinto che vada garantita “con i tempi giusti, la necessaria discontinuità nella governance della banca», pur «all’interno di un disegno di alleanze e di aggregazioni che porti alla “costituzione di un istituto di area vasta». Gli fa eco Renato Ioli, presidente provinciale di Cna, associazione anch’essa in prima linea nel piano di salvataggio di Carim. Per Ioli, pur nell’ammissione che «l’esito della ricapitalizzazione è stato inferiore alle aspettative, tutte le alleanze che comunque permettono di mantenere un orizzonte di operatività all’interno della provincia sono fattibili: la cosa importante è che la banca non sia sradicata dal suo naturale territorio di riferimento, come è in parte avvenuto in passato, e torni ad investire sulle famiglie e sulla micro-imprenditoria riminesi…non solo dunque sulle 4-5 grandi imprese, a cui sono stati garantiti generosi affidamenti, in parte “a cuor leggero!».
Certo, fa un po’ effetto che gli industriali riminesi, ossia i maggiori beneficiari di erogazioni di credito da parte di Carim, si siano defilati. Il loro presidente, incalzato da Linkiesta, non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione. Per Ioli si tratta di «una situazione paradossale, perché ci si sarebbe aspettati che gli industriali mettessero in campo un impegno corrispondente a ciò che hanno ricevuto».