Sembrano trascorse ere geologiche da quando Silvio Berlusconi invocava come sua stella polare “la democrazia decidente nella quale il popolo sovrano con il voto sceglie in maniera inequivocabile da chi essere governato”. Affonda nella notte dei tempi il Cavaliere che nella primavera del 1994 aderiva alla battaglia per l’uninominale secca britannica e per il presidenzialismo nordamericano, come pilastri per dare corpo al grande partito liberale di massa. Una stagione affidata agli storici, visto che l’inesorabile conversione dell’ex Presidente del Consiglio alle regole, alla mentalità e ai metodi della Prima Repubblica, è compiuta.
Oggi il fondatore di Forza Italia è il più appassionato fautore di una riforma integralmente proporzionale del meccanismo di voto, corredata dalla reintroduzione delle preferenze e accompagnata da un premio di governabilità ridotto, non superiore al 10 per cento dei seggi parlamentari. La personalità che più di ogni altra ha incarnato la spinta alla personalizzazione e alla spettacolarizzazione della politica si oppone ora all’inserimento del nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Si tratta di iniziative attentamente studiate, funzionali all’unico disegno in grado di garantirgli una sopravvivenza politica e una capacità di influenza: la riproposizione anche dopo il voto del 2013 di una Grande coalizione a sostegno di un nuovo governo Monti.
Berlusconi è sicuro di non potere vincere e nutre il timore di un crollo verticale del centro-destra, soprattutto se il Movimento Cinque Stelle confermasse la sua avanzata anche nel campo moderato e conservatore. Il suo obiettivo è la tenuta del Pdl. A differenza del Porcellum, la legge cui sta lavorando è la sola in grado di misurarne la forza e di consentirle di esercitare un ruolo centrale come uno degli assi portanti dell’esecutivo guidato dall’economista della Bocconi. Per questo il Cavaliere ha bloccato sul nascere il confronto con il Partito democratico sul modello francese e sul doppio turno di collegio. Meccanismo che, attraverso le centinaia di competizioni imprevedibili in piccoli distretti, potrebbe travolgere il Popolo della libertà in una disfatta incalcolabile. Esattamente come accadde alla Democrazia cristiana nella primavera del 1994, quando Popolari e Patto Segni riuscirono a conquistare appena 4 deputati e 31 senatori.
Una legge interamente maggioritaria di collegio risponderebbe invece all’aspirazione del Pd di Pier Luigi Bersani di creare nelle urne un governo con una forte impronta politica, libero dai veti dell’Unione prodiana e dalle tutele presidenziali tipiche degli esecutivi tecnici. Uno scenario alternativo alla Grosse Koalition accarezzata da Berlusconi e Pierferdinando Casini, storico alfiere del proporzionale e delle preferenze. La dinamica dell’uninominale a due turni renderebbe gli esponenti del Nazareno indiscussi protagonisti in quasi tutte le sfide, promuovendo attorno ad essi e al loro programma la costruzione di una aggregazione politica. Sarebbero loro i candidati forti del fronte progressista in ogni collegio, il perno imprescindibile per creare un’alleanza coerente di governo.
Le formazioni affini o interessate a stipulare un patto di legislatura, da Sel e Idv all’Udc, si troverebbero davanti a un’alternativa secca, già sperimentata in Francia: appoggiare il concorrente più forte e decidere di gravitare nell’orbita democratica, o competere con il rappresentante del Pd in rischiose sfide triangolari che potrebbero avvantaggiare il centro-destra. Un risultato sarebbe fuori discussione: come il Ps d’Oltralpe, che con il 28 per cento dei suffragi controlla tutte le istituzioni repubblicane, il Partito democratico potrebbe conquistare davvero i centri nevralgici del potere.
Non è un caso che molti avversari interni di Bersani e coloro che ne ostacolano la premiership abbiano accentuato la propria avversione a “suggestioni francesi o anglo-americane”, manifestando una convinta apertura verso ipotesi di stampo proporzionale e alla reintroduzione delle preferenze. Dai “montiani” Enrico Letta e Marco Follini, da sempre fautori della Grande coalizione, percorso obbligato in assenza di un chiaro verdetto delle urne e di una netta maggioranza a favore di uno schieramento, a Giuseppe Fioroni e Giorgio Merlo, orgogliosamente democristiani e intimamente ancorati all’architettura elettorale e istituzionale della prima fase repubblicana. Fino al “rinnovatore” Giuseppe Civati e al “rottamatore” Matteo Renzi, che dalla battaglia per il maggioritario di collegio come chiave di volta per il cambiamento e la moralizzazione della vita politica sono passati all’elogio di un meccanismo storicamente legato all’incremento vertiginoso dei costi e delle spese per le campagne, alla deriva affaristica e clientelari della corsa al voto, al suo inquinamento malavitoso in interi territori.
Se i rappresentanti del Nazareno impegnati a ostacolare la marcia di Bersani verso Palazzo Chigi e i meccanismi congegnati per favorire la riedizione della Grosse Koalition (con Monti alla guida) rafforzano il “partito del proporzionale”, esiste un altro avversario per il segretario, forse più insidioso. Per competere efficacemente e conquistare la fiducia dei cittadini in più collegi uninominali possibili, il Partito democratico dovrebbe recuperare la sua originaria vocazione maggioritaria, costruendo al più presto un profilo riformatore autonomo dalle altre forze, attorno a poche e precise priorità. Il gruppo dirigente del Nazareno dovrebbe compiere scelte nette, rischiando spaccature, scissioni e impopolarità. Ma per realizzare una sfida essenzialmente culturale e rompere il totem dell’unità interna, Bersani sarebbe obbligato a rovesciare le premesse con cui era stato eletto nell’autunno 2009, e ad abbandonare una gestione attenta a garantire prima di tutto l’equilibrio fra le anime del partito.
Per il leader del Pd si profila poi un’incognita ulteriore, che potrebbe portare a un risultato paradossale. Nel loro concreto funzionamento, i collegi uninominali con meccanismo maggioritario costituiscono un rischio, soprattutto se accompagnati da elezioni primarie, poiché le competizioni fra singole personalità e la reazione del corpo elettorale in piccoli distretti possono produrre esiti imprevedibili. In una fase di disaffezione e rigetto per la politica tradizionale, le sfide all’ultimo voto nei collegi potrebbero premiare i movimenti più in grado di interpretare il malcontento. Ne scaturirebbe uno scenario “a macchia di leopardo” difficilmente controllabile dalle forze politiche. Molto più “governabile” a livello nazionale sarebbe un voto proporzionale su liste di partito in grandi circoscrizioni, preferibilmente bloccate per assicurare ai vertici politici un assoluto controllo sui parlamentari, con un premio di governabilità rilevante al gruppo o allo schieramento vincente.
Ma il meccanismo descritto ricalca alla lettera la filosofia del Porcellum, che quindi potrebbe rappresentare, per lo stato maggiore del Nazareno, lo strumento più funzionale alla costruzione di un’alleanza vasta, da Casini a Vendola, in grado di prevalere nettamente nel 2013 e di proiettare Bersani a Palazzo Chigi. Una conferma di questo scenario arriva dalle parole che il Cavaliere va ripetendo da giorni: “Il Partito democratico vuole a ogni costo conservare la legge in vigore perché è l’unica che possa garantirgli una vittoria certa”. Forse non è da escludere che, di fronte al tentativo di completare la restaurazione proporzionalistica con l’adozione delle preferenze, il Pd decida di interrompere, almeno nella legislatura in corso, il negoziato sulla riforma del Porcellum. Legge che, per una curiosa nemesi storica, oggi incute un sacro terrore proprio nei suoi ideatori.