Gabriel Georges Nahas
(4 marzo 1920 – 3 luglio 2012)
Qualche settimana fa, nel cimitero protestante di Puylaurens – dipartimento occitano dei Pirenei francesi – veniva sepolto un medico di 92 anni che aveva creato molti problemi a due categorie di persone reciprocamente lontane anni luce: i nazisti in armi e i fumatori di cannabis. Quel medico, nato ad Alessandria d’Egitto da padre libanese e madre francese, era stimatissimo negli Stati Uniti, in particolare.
È morto a New York, città dove passava molto tempo e dove aveva insegnato: medicina, alla Columbia University. Con specializzazione sugli effetti delle droghe, della marijuana, soprattutto. Era nato francese – i suoi avevano lasciato l’Egitto molto presto – e tale era rimasto. Aveva raccolto su di sé qualche massima onorificenza occidentale: la Legion d’Onore, la Croix de guerre 1939-45 con “tre palme”, la Medal for freedom americana con “palma d’oro”, l’Ordine dell’Impero britannico.
Ha incrociato una naturale idea di libertà in guerra (combattere i nazisti, organizzando azioni di resistenza coraggiose e anche originali) con un’altrettanto spontanea idea di limite della libertà, quando questa poteva comportare la distruzione psicofisica: per lui, medico, i pericoli della cannabis erano provati e conclamati, anche se le sue tesi sono state a dir poco contestate. Anche all’interno del Parnaso dei tossicologi.
In breve, il professor Nahas – fra l’altro, presidente dell’Alliance francaise contre la toxicomanie – ha insegnato, combattuto, e resistito, soprattutto venti-trent’anni fa, contro l’idea che uno spinello, ogni tanto, non facesse male. Anzi, che fosse innocente, distensivo, evasivo, quasi una sostanza inorganica.
Ha detto, scritto, e quasi urlato, che la “marija” aumenta l’incidenza delle malattie mentali, è molto più cancerogena del tabacco (detto negli Stati Uniti, era anche di una sublime ironia), e ha un potenziale di dipendenza tre volte superiore a quello dell’alcool. Nessuna attitudine crociata contro i “drogati”: parlava uno scienziato, non un bacchettone.
Gli americani, in particolare, gli sono stati molto grati, come a un good fellow che non smetteva di rinnovare le sue buone azioni: quell’anti-cannabis in tempo di pace, era stato, durante la guerra, un maquis ingegnoso.
Estate 1944: il maquis di Vabre (nel dipartimento di Tarn) addestra un centinaio di resistenti che aiuteranno non poco, nell’entroterra, lo sbarco in Normandia. Gabriel è uno dei capi, ma non si accontenta di un’azione da retrovia: organizza, lungo la frontiera franco-spagnola, un gruppo di combattenti col preciso scopo di facilitare il passaggio in Spagna del massimo di piloti americani o inglesi abbattuti sul suolo francese, e ancora vivi, anche se malconci. Questi, in sintesi, i meriti, e i 92 anni del professor Nahas. Si potrà eccepire sullo spinello, ma la sua vita dovrebbe restare impermeabile ai revisionismi. A meno che la più sciagurata delle mode non lanci il “tipo” del nazista che si fa di “marjia”, notte e giorno.
Giora Tzahor-Weiss
(27 ottobre 1941 – 16 luglio 2012)
Israeliano, ed ex agente del Mossad: di quelli duri, specializzati nell’autodifesa dello Stato, attraverso atti non proprio encomiabili, come omicidi mirati, rapimenti, eccetera. Tutte azioni che, in genere, non prevedono lo sbaglio, o l’incidente che manda all’aria il programma. Giora, in effetti, aveva sempre centrato i bersagli, e non solo nella routine dell’intelligence: una medaglia al valore se l’era meritata per come aveva combattuto, sul fronte giordano, durante la Guerra dei sei giorni. Sobriamente – come si addice a un Servizio segreto – il Mossad ha annunciato la sua morte “accidentale”.
Accidentale: Giora, un robusto settantenne appassionato di ciclismo, scorazza con la sua mountain bike nelle campagne laterali alla cittadina di al-Khadeira, in Cisgiordania. Luoghi e dintorni che conosce alla perfezione: era stato lui, con la sua unità militare, ad occupare il più importante centro cisgiordano, e cioè la città di Nablus.
Era il 1967, durante la vittoriosa valanga israeliana di quei giorni. Giora pedala, con probabile energia, ma l’accidente gli arriva addosso nel più comune dei modi, quando si va in bicicletta in campagna, senza pensare che una macchina può correre troppo, o sbandare, centrando il bersaglio casuale: a Giora succede questo. Una macchina lo travolge, e lui muore. Annuncia un giornale locale, citando il comunicato del Mossad: “He died Monday in an alleged car accident”. Traduzione di alleged: presunto. Le libere associazioni portano dappertutto. Intanto ci sarà un’inchiesta che farà luce, nei limiti del possibile, e del plausibile: non è morto, incidentalmente, un israeliano nella norma. Ci ha lasciato la pelle, “accidentalmente”, uno dei più ferrei agenti del Paese.
Anche se in ritiro, a soli 70 anni. E intanto, ci saranno molti a ricordare gli incroci fra Giora e le loro vite, se ovviamente sono ancora vivi. Come Mordechai Vanunu, già tecnico atomico d’Israele, marocchino di nascita (con padre rabbino), che, dopo una complicatissima – e interessante – metamorfosi identitaria (diventa anglicano, gira il mondo, immagina di vivere in Canada) spiffera al Sunday Times, nel 1986, la quantità di testate nucleari israeliane, con molti particolari relativi al programma estremo di autodifesa dello Stato.
È Giora con pochi altri a rapirlo, a Roma, nello stesso anno, dopo avergli messo di traverso un’agentessa americana del Mossad stesso: il processo Vanunu, in Israele, la sua condanna (18 anni di galera variamente durissimi), la sua esistenza successiva – libertà vigilatissima, altri arresti, divieto di lasciare il Paese – restano tuttora un principe dei casi.
Se ne occupa Amnesty International: Vanunu è considerato «un prigioniero di coscienza», mentre lui stesso – come dice senza tentennamenti – auspica uno Stato palestinese, senza il bisogno speculare di uno Stato ebraico. È soggettivamente un “traditore”, e oggettivamente un recluso coatto. Anche se non in galera. Ma la cosa più atipica di tutta la vicenda è l’incrocio spia-spia, e fra due israeliani: Giora Tzahor-Weiss contro Mordechai Vanunu, in tempi in cui era inimmaginabile un tradimento così all’interno del sistema, e dello Stato, e della società intera d’Israele.
I tempi successivi avrebbero mostrato il peggio, come tutti sanno: Yitzhak Rabin, il Primo ministro del “riconoscimento” reciproco col nemico, ammazzato da un israeliano giovane e claustrofilo, oltre che integralista. Il tutto, con possibili connivenze: di nuovo all’interno del sistema di sicurezza. Sotto questo aspetto, le azioni pre-Vanunu, di Giora, sono roba di routine: gli omicidi di Naeem Khodor – il rappresentante dell’Olp a Bruxelles, nel 1981 – e di Abu Daud – il responsabile del massacro degli atleti israeliani a Monaco – in Polonia, sempre nel 1981. Giora Tzahor-Weiss è morto, accidentalmente, in bicicletta. Uno del Mossad, e indifeso, come tutti, di fronte al caso alleged. Era l’uomo che aveva stanato, e spedito in Israele, un “traditore atomico” israeliano.
Le libere associazioni planano sull’attualità: su l’ex capo del Mossad Meir Degan che dichiarava, due mesi fa, di non voler spiegare ai suoi nipoti perché Israele avesse sganciato la bomba su Teheran, sul massacro del regime siriano, sulla sua fine – finalmente – e sui suoi posteri, sulle armi chimiche iraniane, eccetera. I servizi segreti – si dice – dovrebbero controllare, controllarsi, ed essere controllati. Ma gli incidenti, nella Storia, arrivano quando vogliono, e senza che nessuno abbia un’arcata visiva così vasta da poterli intercettare in tempo.