Se ne sono andati (anche il vero re d’Inghilterra)

Se ne sono andati (anche il vero re d’Inghilterra)

Michael Abney-Hastings

(22 luglio 1942 – 30giugno 2012)

“Farmer” inglese trapiantato in Australia dai primi anni Sessanta, nella cittadina di Jerilderie (1.100 abitanti), New South Wales. Attraverso la sua biografia – è morto a quasi 70 anni – si può anche scoprire che Riccardo III d’Inghilterra non è stato così psicotico e truce come risulta da Shakespeare. Michael non era uno storico, ma un pretendente al trono britannico: uno degli ultimi Plantageneti, da cui derivava la casata di York, quella del re Riccardo. Leggendo di Michael, ci si incuriosisce sui suoi antecedenti, e quindi anche su Riccardo e sulla sua sostanziale normalità, rispetto ai tempi.

Riccardo non era particolarmente storpio, e Michael era alto, largo, ex biondo, educatamente paonazzo, e con quei sorrisi così anglosassoni: stabili, decisi, un po’ canzonatori. Come sir John Falstaff e Winston Churchill. Gli York, esautorati dai Tudor, avevano continuato a perpetuarsi in vari rami di “aristocracy”, come quello degli Abney-Hastings, conti di Loudon. La madre di Michael era Barbara Abney-Hastings sposata al capitano Walter Strickland Lord: essendo socialmente più forte la via matrilineare, Michael era nato Abney-Hastings, e quattordicesimo conte di Loudon.

I conti di Loudon erano da secoli anche i feudatari della città di Ashby-de-la-Zouch, nel Leicestershire. E quindi il castello di Ashby-de-la-Zouch era la casa e la tenuta dove abitualmente crescevano, e dove Michael è diventato grande. La cittadina di Ashby-de-la-Zouch è anche un luogo della letteratura inglese: lì, infatti, si svolge il grande torneo dove normanni e sassoni cercano di farsi fuori, con Ivanhoe che assiste travestito. Tutto meravigliosamente raccontato in “Ivanhoe”, appunto, il gran libro di Walter Scott. Dove la tirannia “francese” dei Plantageneti normanni ha il suo protagonista nel principe Giovanni, e la sua parte buona in Riccardo, detto “cuor di leone”, fratello di Giovanni. Tutti antenati di Michael.

Elisabetta II – Windsor, ex Saxe Coburg Gotha, o anche Hannover – la regina che a Londra sta festeggiando, bene, i suoi 60 anni di corona, può vantare anche lei qualche Plantageneto fra gli ascendenti, ma molto più ai lati degli Abney-Hastings, e quindi anche di Michael. Per cui, Michael ha deciso, da molto presto, di far sapere la verità, e di giostrarsi, con un certo estro, una vita da pretendente al trono inglese.

A 18 anni, Michael si trasferisce in Australia: fedele al plurisecolare viavai avventuroso di giovanotti e ragazze dell’universo inglese, fra madrepatria ed ex Dominions bianchi dell’ex impero (Australia, Nuova Zelanda, Canada). A meno di 60 anni, del tutto angloaustrialiano, Michael fa il colpo mediatico: il suo documentario “Britain’s Real Monarch” (2004), viene mandato in onda da Channel 4 e racconta queste cose. Che Michael, discendente diretto del primo duca di Clarence – Giorgio Plantageneto – è il legittimo re d’Inghilterra, che un altro suo avo sovrano – Edoardo IV – non era figlio illegittimo (come una parte di storici araldisti continua a sostenere), e che la figlia di Edoardo – Elisabetta di York – non è un’ascendente diretta dell’attuale “Royal Family”.

Il documentario sembra essere stato molto seguito, e, naturalmente senza nessun strascico costituzionale. Michael si è comunque molto divertito: parlando in pubblico di Elisabetta, dall’alto in basso ma senza strafare, usando cognome e titoli senza “pretendere” altro, e tenendo molto a trasmetterli ai suoi cinque figli, e in particolare a Simon: suo figlio maschio e maggiore, oggi conte di Loudon. Il quindicesimo. Tutta questa allegra vicenda non risulta eccentrica, ma solo graziosamente pop. E con un suo livello: gli Abney-Hastings fanno documentari su se stessi, di Storia, ma non si infilano in matrimoni con personaggi vari “dello spettacolo”. Quelli che la tv chiama “artisti”.

Attraverso quella Storia, il povero Riccardo III viene fuori più buono, anche saggio, e meno spettacolare. E Michael, come sorpresa finale, dichiara di essere un accanito repubblicano. In Australia, dove Elisabetta regna, ma sottoposta, sempre più spesso a referendum costituzionali. Vinti abbastanza di misura. Per ora. 

Yitzhak Shamir

(15 ottobre 1915 – 30 giugno 2012)

Icchak Jaziernicki, nato nella Polonia russa ed emigrato in Israele nel 1935, avrebbe occupato tre posti nella storia politica della sua vita: due volte Primo ministro israeliano – della destra Likud – negli anni Ottanta e fino al 1992, e 29esimo, nel 2005, in una classifica-sondaggio proposta dal sito Ynet per stabilire chi fossero stati gli “eminent Israelis” nella storia del Paese.

Non un gran che, il ventinovesimo posto, per un uomo politico che aveva fatto il premier in snodi decisivi. Come il passaggio di mano dai laburisti alla destra in Israele: il nuovo premier Menachem Begin – ex terrorista, contro gli inglesi – era la novità, e aveva comunque una caratura. Era il Primo ministro che aveva ricevuto Sadat a Gerusalemme, ridando all’Egitto il Sinai, e anche una nuova personalità politica, oltre che strategica.

Shamir – premier nel 1983-84, e nel 1986-92 – sarebbe stato un successore in alternanza, ma soprattutto la rappresentazione di un Israele blindato. Non solo militarmente (la feroce spedizione in Libano, pianificata da Ariel Sharon, era del 1982), ma soprattutto psicologicamente. Shamir rappresentava il Paese, all’apertura dei negoziati di Oslo (1992) essendo sostanzialmente contrario a qualsiasi concessione. E caratterialmente ostinato, e quindi in difficoltà, perché gli Stati Uniti volevano l’accordo. E quindi obbligato, dalle circostanze, a fingere il “riconoscimento” dell’altro: in questo, molto simile a Yasser Arafat, anche se del tutto sprovvisto, rispetto ad Arafat, di seduzione mediatica. O anche di una capacità di mentire più efficace: quando quello in cui non si crede, viene pubblicamente travestito nella convinzione opposta.

La politica interna del Likud – schermaglie e intrallazzi – lo aveva portato al primo posto: un “quadro” medio chiamato a negoziare un diverso futuro per il suo Paese. A parte un patriottismo blindato, e un muoversi – piccolissimo di statura – a scatti e a sorrisi stirati, non si ricorda di Yitzhak Shamir nessun gesto, o idea, da uomo di Stato, o almeno da politico accorto. Come Menachem Begin, anche Shamir aveva combattuto gli inglesi col terrore: erano gli uomini dell’Irgun, o della Banda Stern, che avevano fatto saltare in aria il King David, a Gerusalemme, o ammazzato Folke Bernadotte, cugino del re di Svezia e mediatore delle Nazioni Unite. Diversamente da Begin – diventato un politico “laico”, cioè capace di incrociare i principi con i passaggi della Storia – Shamir era rimasto un uomo d’apparato, ma questa era la sua vocazione, il suo gusto spontaneo.

Lawrence Sydney Eagleburger – l’ultimo Segretario di Stato di George Bush padre – aveva dovuto sperimentare un altro carattere di Shamir, nel pieno di una missione difficilissima. Il carattere era la stizza dispettosa, la missione consisteva nel convincere Israele a non unirsi nell’attacco contro Saddam Hussein, a ridosso della Guerra del Golfo. Perché, in quella coalizione, i Paesi arabi “amici”, armati, erano una presenza decisiva. Anche idealmente. Eagleburger era molto paziente, ma, alla fine, per ottenere il risultato, ordinava a Shamir di stare fermo.

Naturalmente con tutta la comprensione verso Israele che si vedeva piovere in testa, da Nord Est, una catena di missili Scud iracheni. Shamir è morto a 96 anni (per un Alzheimer), a Tel Aviv, formalmente (e non solo) ricordato come uno dei padri protettori del Paese. Se un giorno qualcuno volesse scrivere qualcosa sull’abbassamento di livello della classe politica d’Israele negli snodi decisivi della sua Storia, quel piccolo ex Primo ministro potrebbe costituire uno dei più tipici paradigmi. 

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