«Se sano riformismo vuol dire valutare con onestà intellettuale i problemi del nostro tempo, e proporre progetti non faziosi ma nell’interesse generale, senza la presunzione di soluzioni miracolistiche, allora sento di potermi iscrivere in questo filone culturale e politico». Elsa Fornero introduce così la sua appassionata rivendicazione della riforma del mercato del lavoro, che prende corpo nel corso dell’incontro organizzato a Roma da Confcommercio.
Un’organizzazione fra le più critiche sui contenuti del provvedimento, come rivela il direttore generale Francesco Rivolta. Il quale parla di «un testo che non ha colto nel segno, poiché riduce e penalizza la flessibilità in entrata introdotta dalla legge Biagi e capace di creare tre milioni di occupati, aumenta a dismisura il costo del lavoro per le aziende soprattutto nel campo degli ammortizzatori sociali». Carenze che a giudizio di Rivolta si inseriscono in un quadro preoccupante di crescita record della pressione fiscale e di stagnazione dei consumi, aggravate dalla mancata diminuzione della spesa pubblica.
Le obiezioni rivolte dal rappresentante degli esercenti trovano una replica puntuale e orgogliosa nell’intervento della responsabile del Welfare, che ricorre a tutto il suo «carisma professorale», anche negli accenti, per spiegare a una platea diffidente le ragioni di «un provvedimento finalizzato a rivoluzionare mentalità e comportamenti di istituzioni nazionali e territoriali, imprenditori, sindacati».
Se questo è l’obiettivo, le premesse non possono che toccare il tema su cui l’iniziativa dell’esecutivo ha espresso più efficacemente la sua forza innovatrice: la concertazione, metodo che per decenni e fino all’avvento dei “professori” ha costituito la stella polare intoccabile per le decisioni cruciali di politica economica e sociale. Paradigma dell’architettura istituzionale del nostro paese come il consociativismo, la ricerca a ogni costo della corresponsabilità nelle scelte strategiche fra le componenti produttive è scaturita dal dogma del consenso e della pace sociale, dall’imperativo di evitare rotture profonde degli equilibri esistenti.
Per generazioni sono state rinviate necessarie trasformazioni solo perché i rappresentanti di una parte in causa erano ostili, e la sovranità sul terreno economico e sociale è stata trasferita dal Parlamento alla Confindustria e ai rappresentanti dei lavoratori coordinati dal governo. Le decisioni assunte dal “tavolo comune” erano fedelmente ratificate dalle Camere, esautorate delle loro prerogative. Un modello essenzialmente “neo-corporativo”, che sovrapponeva le scelte condivise a livello sociale alla volontà delle istituzioni civili ed elettive.
Coerentemente con le parole pronunciate da Mario Monti, Fornero puntualizza che «se concertazione equivale a decidere assieme, questo non è il governo della concertazione». A Raffaele Bonanni che identifica la regola della corresponsabilità con l’essenza della democrazia, e a Romano Prodi che spiega come «l’Italia sia andata avanti grazie a tale metodo», il ministro replica che «senza dubbio la condivisione delle politiche economiche e sociali rappresenta un plus, un arricchimento, ma in assenza di accordo è doveroso che decidano le istituzioni pubbliche». E sottolinea come ben diverso è il dialogo con gli attori sociali, «che abbiamo portato avanti per tre mesi, ascoltando tutte le voci». Alla fine «compito dell’esecutivo è ricomporre le diverse proposte in un sintesi equilibrata, che non vuol dire compromesso».
Ed è lungo la traiettoria disegnata dal binomio «dialogo e decisione» che la titolare del Welfare difende i punti qualificanti di «una riforma buona anche se non in termini assoluti, alla luce dei vincoli stringenti in cui deve operare Palazzo Chigi». Un intervento «orientato all’equilibrio e all’incisività sul tema della flessibilità in entrata, per cui se da alcune organizzazioni siamo stati accusati di eccessiva riduzione da altri soggetti il rimprovero è di averla diminuita troppo poco». Allo stesso modo, rimarca il ministro, «abbiamo contemperato le esigenze di maggiore elasticità contrattuale manifestate dalle aziende con le istanze di una più solida stabilità avanzate dai sindacati, entrambe motivate dagli effetti della crisi in atto». Per rendere possibile un simile obiettivo «si è deciso di puntare sull’apprendistato, lo strumento che più di tutti incentiva l’occupabilità e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, a breve distanza di tempo dalla conclusione del percorso educativo».
A questo scopo è stata improntato anche l’intervento relativo alle partite Iva, «da incoraggiare soprattutto nelle aree in cui è difficile trovare un’occupazione già definita, ma da combattere con forza se si tratta di forme di attività dipendente mascherata». La linea del «cambiamento equilibrato» ha coinvolto poi i provvedimenti sulla flessibilità in uscita e l’articolo 18, «tema intoccabile fino a pochi mesi fa, su cui siamo intervenuti con la consapevolezza che giudici, imprenditori e sindacati sappiano svolgere bene il proprio compito». L’articolo 18, osserva la responsabile del Welfare, «riguarda le controversie di lavoro, e per sua natura non poteva essere abrogato».
È stato realizzato, rivendica Fornero, «un lavoro di fino in grado di ricavare il buono da tutte le proposte in campo, per raggiungere l’obiettivo di lungo periodo di un lavoro produttivo lontano dalla dimensione del “mordi e fuggi”, che costringe le persone a pensare alla propria precarietà anziché entrare pienamente nell’orizzonte dell’impresa». Il cuore dell’iniziativa assunta dal governo è «un contratto di occupazione che si stabilizza e si consolida nel tempo, grazie al quale il lavoratore può acquisire e allargare progressivamente competenze, conoscenza, professionalità».
E proprio attorno alla promozione e difesa del lavoratore e non del posto di lavoro, «strada illusoria e dispendiosa», è stato concepito a partire dal 2013 il nuovo ammortizzatore sociale dell’Aspi, «tendenzialmente universale e condizionato all’adozione di politiche attive per la ricollocazione produttiva intraprese dalle istituzioni con la partecipazione centrale della persona interessata». Molto più limitato, riconosce Fornero, il margine di azione possibile per incoraggiare l’occupazione femminile e la conciliazione fra lavoro e famiglia, «per cui sono state centellinate le poche risorse disponibili». Mentre le condizioni dei conti pubblici, osserva l’economista rispondendo alle critiche di Confcommercio, «non offrono lo spazio per attuare la doverosa riduzione delle aliquote contributive a carico delle aziende».
Limiti e carenze che tuttavia non intaccano la convinzione espressa da Fornero al termine del suo ragionamento: «Benché migliorabile là dove risulti necessario in base a un attento monitoraggio, la nostra riforma, ispirata all’esperienza compiuta in Germania, darà buoni frutti. E se le sue conseguenze benefiche contribuiranno a promuovere una ripresa economica, potrebbero crearsi le condizioni per iniziare a ridurre il peso delle tasse. Anche se sarebbe troppo bello per essere vero».