Alfa Castaldi, La machine à manger les huitres (1972)
Il rovesciamento delle coscienze nell’urbanizzazione accanita agita un movimento di pensiero che è prima di tutto manifestazione della parola non più oggettiva e priva di estetica. Eppure, sempre la parola, nei leggendari Settanta, continua a respingere l’accusa d’essere uno scudo fragile, imponendosi come voce di una moltiplicazione di prospettive contrarie alle repliche della Pop art e dei media. Sono rivendicazioni di identità tra il personale e le propaggini politiche di fucine mai omologate.
La mostra inaugurata il 31 maggio a Palazzo Reale, a cura di Francesco Bonami e Paola Nicolin, predilige a proposito l’epicentro di una Milano abitata dai fermenti di piccole gallerie cui tuttora l’arte contemporanea si appoggia, non disponendo di una rete di concorsi e affiliazioni pubbliche. La territorialità della prima linea meneghina, che negli anni del festival del proletariato giovanile al Parco Lambro ospita anche la neoavanguardia poetica e l’informale, coglie forse il ramo più nostalgico di quel che è stato, con tutto il disordine, le ferite e la sovrapposizione di istanze: dall’alterazione degli stati di equilibrio con Bariestesia (1974-75) di Gianni Colombo al di poco antecedente Progetto per un Amleto politico (1973) di Vincenzo Agnetti, che sostituisce l’introspezione con l’affermazione e fa del monologo del principe di Danimarca un comizio. Sulle pareti, tavole di numeri al posto delle parole e una voce in loop che ripete la sequenza dell’uomo non più emblema del dubbio.
Se allora i praticabili deformati di Colombo puntano a sovvertire le percezioni dello spettatore, l’emisfero poetico del Gruppo 63 si lega al binomio di un’attività letteraria e di performance. In mostra il video di un recente spettacolo di teatro-danza tratto da Blackout, l’inno funebre di Nanni Balestrini a quei fuochi ribelli scomparsi senza lasciare spoglie degne. Tra i fondatori della rivista Alfabeta e del consorzio Ar&a, Balestrini di fatto tende a ridurre la relazione con lo spettatore cui restano in memoria preziose pubblicazioni raccolte in teche dove spiccano Il superuomo di massa di Umberto Eco e Il corpo lesbico di Monique Vittig.
Tutto quanto è affare privato si fa terreno ideologico, protesta comune, esaltazione o furore verso un declino importuno cui fanno fronte i Paesaggi (1977) di Giuseppe Spagnulo, lastre di vetro affondate nell’argilla e rotte dal passo dell’uomo. Sulla sponda opposta, gli eccessi del concettualismo e gli strappi di Mimmo Rotella che aderisce a Cooperarte accanto a Emilio Isgrò e Getulio Alviani. Se da un lato il décollage è una tecnica spinta dal graffio creativo in progressione, è però la drammaturgia contemporanea di collettivi come il Teatro dell’Elfo, i Magazzini criminali o di luoghi di stampo newyorkese come il Teatro Out Off o bacini memorabili come il Pier Lombardo di Giovanni Testori e Franco Parenti a gettare reali fondamenta. Allo stesso tempo, le sperimentazioni musicali attraversano l’essenziale ritmico-sonoro di John Cage che nel ’77 riempie il Teatro Lirico.
Lo sguardo d’insieme di Addio anni Settanta non prevede però un’impronta filologica: sono i luoghi come il Bar Jamaica o i laboratori militanti a fare da testimoni e rimarcare sia il limite di una rievocazione in alcune sale più decorativa a confronto con un’epoca aspra e feconda, sia la stratificazione di rapporti incandescenti e forti della permanenza a Milano verso la fine degli anni Sessanta di artisti come Lucio Fontana. I vivai ne escono a frotte e chiamano in causa scatti di gasometri, i profili delle fabbriche di Gabriele Basilico, i reportage sugli emigranti e la nuova periferia milanese di Gianni Berengo Gardin, i ritratti di intellettuali impegnati di Carla Cerati, le Metafore architettoniche di Sottsass e gli “scatti sociali” di Ugo Mulas.
Il 1970 contempla poi l’apertura al Nouveau Réalisme con l’accensione di una scultura di fuoco a ricordo dell’immateriale di Yves Klein, o i getti di poliuretano in Galleria Vittorio Emanuele poi solidificati, fatti a pezzi e firmati dall’artista César che ne fa dono al pubblico. La stessa galleria funge da scenario anche per gli spari di Niki de Saint Phalle a un tabernacolo in linea con la deflagrazione in piazza Duomo della macchina fallica di Jean Tinguely, in piena retorica antimussoliniana. Così il progetto clamoroso di Christo per impacchettare il Duomo sconfina nella provocazione di Daniel Spoerri cui è dedicata un’intera stanza di dodici tavole astro-gastronomiche o “quadri-trappola” frutto della fissazione del gesto casuale tra l’opera d’arte e il consumo di cibo divenuto rimasuglio appeso al muro e ironia zodiacale.
Il richiamo eterogeneo dei Settanta fino al primo decennio successivo coincide davvero con un serbatoio onnivoro che sembra aver pronunciato tutto o quasi e i pochi soldi di allora non estinguono riscatti dalla crisi di oggi. Tra chi aderisce al comitato promotore del monumento a Roberto Franceschi – studente ucciso davanti all’Università Bocconi nel 1973 durante una manifestazione per l’uso di un’aula d’assemblea – e chi come Allan Kaprow fissa nell’happening del prima e dopo l’incontro con la discontinuità spazio-temporale, scorrono docufilm dai tratti sociali, la Simulazione della caduta del manichino di Giuseppe Pinelli (1972) in sei stampe fotografiche di Massimo Vitali, e l’Antropologia riseppellita (1976-77) di Claudio Costa dove ossa e oggetti giacciono sotto la stessa fanghiglia.
Immutata, invece, proprio la resistenza della parola nell’Avventurosa vita di Emilio Isgrò (1972): «la sola arma» a disposizione di tutti quegli artisti «battuti dai mass media». Un «mezzo povero e dileggiato, paragonabile però alle api che i contadini del Vietnam lanciavano contro i carri armati americani. Il pilota, accecato, non aveva scampo: doveva scendere, darsi prigioniero.»
Addio Anni ’70. Arte a Milano 1969-1980
Milano, fino al 2 settembre 2012
a cura di Francesco Bonami e Paola Nicolin
Palazzo Reale – Piazza del Duomo, 12
INGRESSO GRATUITO
www.comune.milano.it/palazzoreale/