Gore Vidal (3 ottobre 1925 – 31 luglio 2012) – Ha scritto spaziando, all’americana, su generi diversi: narrativa, biografia, saggi storici, pamphlet politici, sceneggiature. Ha dato il meglio (poco), quando afferrava di getto, scrivendone, i drammi, o le passioni private, e “proibite”, delle persone, le sue, prima di tutto. La statua di sale, del 1948, è vita vissuta, e volata via, col suo primo amore, un ragazzo morto in guerra a Iwo Jima. Myra Beckenbridge (1969) è un transessuale ante litteram letteraria, relativamente scandaloso per quegli anni, mentre lo script di Improvvisamente l’estate scorsa – il film capolavoro di Joseph L. Mankiewicz (1959) – è un adattamento di gran mestiere da un testo di Tennessee Williams.
Mestiere, appunto, o practice. È stato il carattere, o la compagnia, costante, di Gore Vidal, la sostanza che non lo ha mai fatto volare alto, ma che lo ha specializzato in ruoli e opere di successo: l’happy one democratico (apparentato con i Kennedy e con Jackie, e nipote di un celebre senatore) che denunciava i marchingegni interni del potere americano ed esteri dell’“impero”. L’esule, per 30 anni, a Roma e a Ravello, iperprotetto dal suo nome, da se stesso, e dall’idolatria di una fila di mondanoidi internazionali: quel genere di persone per cui essere, o fare, gli “omosessuali”, sfogliando Architectural Design, e parlando del “fascismo” degli Stati Uniti, aveva, e conserva, un eccitante ritmo non conformista.
Naturalmente Gore Vidal non ha attratto solo questa fuffa. In compenso, ha anche detto e scritto, con mestiere, qualche oscenità, e qualche bugia: beccandosi, stabilmente, la magnanima patente di “eccentricity”. Con una bugia minima, si è fatto passare per lontano cugino di Al Gore, nel momento di massima pubblicità democratica dello stesso Al Gore: quando, avendo vinto le elezioni del 2000, l’ex vicepresidente di Bill Clinton accettava il verdetto della Corte Suprema che assegnava (dopo la estenuante “riconta” dei voti) la presidenza a George Bush junior. È stato sinceramente osceno nei confronti di Oscar Wilde, paragonandosi a lui, in versione aggiornata al XX secolo (e alla faccia del mestiere di vivere di Oscar Wilde, oltre che di tutti i suoi libri). Ha interloquito minuziosamente con Timothy McVeigh – l’autore della strage di Oklahoma City – come potrebbe fare un giornalista provvisto di una tesi precostituita: in quel caso, la connivenza, o l’inazione preventiva, dei servizi e del “potere”, in vista di quell’attentato.
Stessa linea, più o meno, per l’attacco dell’11 settembre: un disegno interno all’amministrazione per scatenare la US Army in Afghanistan e nella Mezzaluna Fertile. Gore Vidal, ex riservista dell’esercito americano durante la guerra, ha anche bersagliato una fila di presidenti. Anche lì con mestiere, dosando la carica a seconda della complessità degli obiettivi: per un democratico, nipote di un senatore democratico, fare le pulci all’“imperialismo” di Ronald Reagan e Bush figlio aveva il valore di un effetto eco all’opinione pubblica e democratica di mezzo mondo. Con Franklin Delano Roosevelt – il presidente del New Deal e della vittoria sul nazismo e sull’imperialismo giapponese – il “pratictioner” Gore Vidal ha usato l’arma del complotto: in sintesi, l’attacco a Pearl Harbor era previsto dal presidente, ma era utile lasciar fare, per poter poi fare la guerra.
Da tener presente come, nella maturità, Gore Vidal parlasse spesso di “white race”, di razza bianca, con preoccupazioni geopolitiche. David Greenberg cita un articolo pubblicato da The Nation il 22 marzo 1986: dove Vidal auspica un’alleanza “bianca” con l’Urss, di fronte al pericolo a venire di “one billion grimbly efficient asiatic”. Qualcosa di visionario c’è, affiancato a un abbaglio (quale presidente americano oggi farebbe squadra con Vladimir Putin?) e a un’eredità ideologica poco simpatica (la compattezza razziale). Se si parla di “razza”, le scivolate possono arrivare proprio nel momento in cui si pensa che il proprio equilibrio democratico sia stabile: quando – sempre su The Nation – Gore Vidal poneva qualche domanda retorica sul livello reale di “assimilazione americana” del celebre senatore ebreo e repubblicano Norman Podhoretz, la voce dell’inconscio e di una storia non troppo lontana, si faceva sentire.
Era quella dell’isolazionismo “pacifista” di molta ruling class americana degli anni Trenta, repubblicana e democratica. Erano i senatori e i deputati che, fino a Pearl Harbor, facevano i cani da guardia a Roosevelt, e all’intervento, mobilitando milioni di cittadini, e primedonne molto chiare nelle loro preferenze. Come Charles Lindbergh, il trasvolatore, decorato a Berlino da Göring, che, alla radio diceva la sua: «Gli ebrei vogliono portare la nazione in guerra contro Hitler». Tutto questo era il brodo primordiale di Gore Vidal. Anche se lui stesso, sinceramente o con molto mestiere, ha dichiarato: «Non sono antisemita come mio nonno». Aggiungendo, a più riprese, e in diverse occasioni, come la scelta “di fedeltà” a Israele o all’America, fosse sempre una materia da testare sugli ebrei degli Stati Uniti.
Alla fine: chi è morto, a 86 anni, a Los Angeles, dopo una nascita a West Point, e una vita di molti libri, molti saggi, molte passioni, e molti mestieri e arti? Lui, Gore Vidal, dopo aver scritto anche sette volumi sugli ultimi 150 anni di storia americana, si è definito anche “biografo della Nazione”. E dell’“impero”. David Greenberg lo ha invece centrato sul personale: un nostalgico dell’America bianca e sola, un tipico “nativist, bigot, racist and elitist”. Per questo, se è vero, potrebbe diventare un “tipo” postcontemporaneo, proprio negli anni (questi) del tramonto imperiale.