Sir Bernard Lovell
(31 agosto 1913 – 6 agosto 2012)
Se, da un altro pianeta – o da un’astronatante nello spazio cosmico – qualcuno avesse voluto osservare con un lungimirante telescopio un tipo inglese di una volta (e dei migliori) l’avrebbe trovato in Sir Bernard: scienziato e cricketer, appassionato di musica d’organo, e capace di suonare molto bene il pianoforte. Fisicamente lungo, elegante senza pompa, con gli occhi in giù come un anziano bracco che si godeva le brughiere senza rinunciare al gusto delle esplorazioni. Se, da un trilocale moscovita o dell’ex Leningrado, un anzianissimo pensionato del Kgb voleva ricordare un bersaglio mancato, e molto britannico, Sir Bernard era la memoria giusta: aveva saputo spiare l’Urss nel più futurista dei modi. Rovistando nell’universo circostante alla terra con il primo radiotelescopio orientabile, da lui stesso creato. Un “cosmopolita”, alla lettera. Geniale e pericoloso.
A 96 anni, nel 2009, Sir Bernard l’aveva detto, per la prima volta, in pubblico. In piena Guerra fredda, da Mosca avevano architettato di farlo fuori: con dosi di radiazioni letali, cioè col metodo che l’ex agente del Kgb Vladimir Putin avrebbe istruito con successo per eliminare qualche oppositore transfuga dalla nuova Russia, di cui Putin era diventato – restandolo – l’autocrate vecchio stile.
La colpa di Sir Bernard coincideva con i suoi traguardi: quel potentissimo telescopio di Jodrell Bank – località Goostrey, nella campagna del Cestshire – serviva benissimo la scienza, i primi passi dello scrutare extraterrestre, e intanto captava al volo le orbite dei vari Sputnik, mandando anche preziose informazioni sul nucleare sovietico.
Jodrell Bank, negli anni Cinquanta e Sessanta era una celebrità, un nome in gara con l’americano Cape Canaveral, o con il cosmodromo russo asiatico di Baikonur: da lì non si provavano lanci di capsule, missili, o moduli spaziali, ma si scandagliava il terreno. Quel telescopio europeo – e Sir Bernard che era il cervello di tutto – scrutava le comete, permetteva di aggiornarsi sull’influenza lunare sulle maree, e faceva sognare progressi sul tema eccitante della “vita in altri mondi”.
Personalmente, Bernard Lovell, non era incline all’ “ufologia”: fisico di formazione, era nato nel paese di Newton e di Darwin, e anche il fatto di essere musicista lo apparentava con l’esattezza dei segni, per creare o “sentire” qualcosa. Era di Bristol, e durante la guerra aveva fatto un buon tirocinio come addetto alle telecomunicazioni, ai radar, in particolare. Anche questa base lo avrebbe reso un osso duro – e sospetto – agli occhi dell’intelligence sovietica.
Aveva anche il passo in più della divulgazione esatta e coinvolgente. Nel 1958 – quando sembrava che i russi avrebbero dato molto di lungo agli americani nelle gare cosmiche – Sir Bernard ipnotizzava gli spettatori della Bbc con sei conferenze intitolate “The Individual and the Universal”. Di fronte al materialismo integrale degli spedizionieri spaziali sovietici – per i quali i giri nel vuoto di Yuri Gagarin, e poi di German Titov, e di Valentina Tereshkova – sarebbero state prove in più dell’assenza ogni principio creatore, Lovell (che, dopo tutto, era nato nel Paese di Hume) piazzava “l’intelletto umano” di fronte, o a fianco – e non contro – la sorprendente evidenza dell’universo, o dell’infinito. Che, proprio in quegli anni, e per la prima volta, si poteva osservare con l’occhio lunghissimo di un telescopio, andandoci poi a flottare per un po’ di tempo. E ponendosi, naturalmente, l’infinità di domande, che non smettono, né smetteranno, di tenere banco.
Elisabetta II ha fatto con Bernard Lovell quello che a Londra, in Scozia, e nell’Ulster si fa con i britons più nazionali o più cosmopoliti: gli dato la piccola baronia, quel “Sir”, decorativo e di sostanza, che non invecchia. Anzi, Bernard Lovell lo ha portato con allegria, vivendo in pace, nella sua brughiera, col piacere primario della musica, e morendo a quasi 99 anni. Limiti d’età, in un tempo in cui un atterraggio (quello, recentissimo e riuscito) di un robot su Marte, sembra una massima evasione da un pianeta dove il tema della “guerra mondiale” appare ferocemente e sempre meno marziano.
Peter Janos Zwack
(21 maggio 1927 – 5 agosto 2012)
Il primo ambasciatore ungherese a Washington, dopo la fine del regime comunista, aveva un viso affilato, uno cognome celebre, una compatta parrucca castana, la passione per l’Italia, Firenze, e la Fiorentina, un’abitudine al mondo, la conoscenza di più lingue, e una storia magiara di prima fila. Un suo antenato era stato medico di corte di Giuseppe II, la sua famiglia aveva avuto rapporti cordiali con il reggente Horthy, l’insurrezione del 1956, e i profughi che erano riusciti ad emigrare dopo la repressione russa, avevano avuto da lui assistenza e aiuti finanziari, dagli Stati Uniti. Fra i suoi soci americani di quel “First Aid to Hungary” (un’associazione creata apposta a New York) c’erano Herbert Hoover, e Sargent Shriver, cognato di John e Bob Kennedy. Era un cattolico praticante con radici interamente ebraiche: i due genitori si erano convertiti, e Péter sarebbe rimasto costantemente legato a quelle origini, finanziando e appoggiando iniziative a favore della cultura e dell’ebraismo magiari. Soprattutto, aveva ereditato, e avrebbe ricreato, un’industria e una ricetta particolari, legate al piacere, formalmente amaro, di una bevanda unica e disponibile nei bar più attrezzati del mondo.
L’amaro “Unicum”, appunto, la cui formula era una tradizione passata attraverso cinque generazioni di Zwack. Un concorrente più antico anche del Fernet dei Fratelli Branca, dato che la base, poi perfezionata lungo i 150 successivi, risaliva all’estremità del XVIII secolo, grazie a quel medico personale degli Asburgo. Fatta qualche proporzione storica, gli Zwack e l’Unicum (inizialmente Zwack liqueur) possono tenere un loro posto fra le più originali invenzioni del secolo magiaro: la penna a sfera dovuta al genio di Laszlo, o Ladislao, Biro (di Budapest), il sionismo formulato in tedesco con tanto di libro base – Der Judenstaat – da Theodor Herzl (anche lui nato nella capitale), la bomba all’idrogeno messa a punto da quel particolarissimo Stranamore che era Edward Teller.
Di Budapest, naturalmente, poi naturalizzato americano, e ascoltatissimo suggeritore di Ronald Reagan: in particolare sul tema dello scudo stellare. Anche Péter Zwack era diventato cittadino degli Stati Uniti, nel 1964: nei quasi vent’anni precedenti la sua storia ungherese aveva avuto un percorso consono ai passaggi drammatici di quel Paese.
L’occupazione nazista, il dilagare collaborante delle Croci Frecciate, l’arrivo di Adolf Eichmann e la pianificata deportazione di quasi 400 mila ebrei, e poi, il nuovo potere comunista-staliniano di Matyas Rakosi. A 22 anni, Peter era un rifugiato nel Bronx newyorchese, dopo la statalizzazione dell’industria e delle proprietà dell’Unicum.
Proprietà in senso non strettissimo: la ricetta dell’amaro era al sicuro, con Péter, nello Stato di New York, e le enciclopedie raccontano di come un parente Zwack, rimasto in Ungheria, fosse riuscito a immettere sul razionato mercato magiaro, una formula posticcia della bevanda. Nella vita da rifugiato, Péter sviluppava le sue qualità, il suo istinto, e la tradizione familiare: nei Queens, e poi a New Haven sarebbe diventato un manager di successo di una ditta di importazione di alcoolici.
Diversamente dal neoamericano Teller, Péter Zwack, nel 1970, sceglieva di tornare in Europa, a Vienna, con sua moglie e i figli. Il 1989, con Budapest che si liberava, e onorava con funerali di Stato i combattenti del ’56 ungherese (il generale Maleter, lo sfortunato premier Imre Nagy), era pronto anche per lui: gli ultimi vent’anni del patron dell’Unicum sarebbero stati anche quelli di uno Zwack politico, più volte deputato, in alleanza con il Partito agrario Fidesz.
Nell’esilio aveva scelto anche l’Italia, insieme all’America: con una laurea in Economia a Milano, oltre che a New York. La Toscana, e Bolgheri in particolare, era una sua residenza d’elezione, e non solo un beato rifugio: è morto nuotando in piscina a Calidario di Venturina, Livorno. Ha rappresentato personalmente e culturalmente l’idea di una “grande Ungheria” – anche con qualche passaggio contraddittorio – lontanissima dalla visione feroce e nazionalista in auge oggi a Budapest.
I morti in Siria
(2011 – 2012, in corso)
Uccidere, come è successo qualche giorno fa, ad Aleppo, oltre 300 civili in 24 ore – fra cui bambini e donne a decine – è un traguardo mortifero non da poco. Farlo, bombardandoli dagli aerei e dagli elicotteri di un’esercito “regolare” di una dittatura addestrata al peggio, è il carattere costante, da oltre un anno, del regime di Bashar al-Assad. Reagire, da oltre un anno, con le armi – a Damasco, Aleppo, Homs, e ormai in tutto il Paese – vuol dire mettere in piedi una “resistenza”. Come è successo non tanto tempo fa (una settantina d’anni) nell’Europa dei partigiani e del maquis.
In una resistenza – come in una rivoluzione – c’è di tutto: militanti di partiti ancora da formare (laici, religiosi, più o meno democratici, o libertari, o“d’ordine”), ex soldati, ex ufficiali, ex funzionari del regime, cittadini incerti, ma fino a un punto di non ritorno all’indietro, cittadini normali poco addestrati a sparare ma che imparano a farlo, giovani o giovanissimi (uomini e donne) che si improvvisano staffette o guerriglieri, e comunque disposti a farsi ammazzare per l’idea di un Paese diverso. Detto senza enfasi, più libero. O almeno con un’altra prospettiva che non sia quella già vissuta, a proprie spese, da vari decenni.
Nel caso siriano, crescere o invecchiare all’ombra di un partito-Stato unico (il Ba’ath), di un gruppo minoritario e di potere (alawita-sciita) in un antichissimo Paese costruito anche da musulmani sunniti, da cristiani, e da ebrei (un tempo), di una famiglia-clan (gli al-Assad), di un sistema di controllo e di polizia che, da oltre 40 anni, spia, arresta, tortura, e ammazza richiamandosi, nei fatti, al modello della Gestapo. Un regime, alla lettera, nazionale (Repubblica araba di Siria) e socialista (al di là del consumo di quel termine, il partito Ba’ath, a Damasco, ha il “ruolo guida”, il presidente della Repubblica è anche “segretario” di quel partito, e l’organismo legislativo si chiama “Assemblea generale del popolo”).
Di fronte a queste informazioni – più che note – e al massacro in scala (quasi 18 mila morti, di cui 11 mila civili), un bel po’ di spettatori – fuori dalla Siria e dal Medio Oriente – invoca lo status quo (cioè la “stabilità” della Siria di Assad, e la sua eventuale vittoria) quasi come un diritto alla propria protezione, in vista del peggio (una crisi mondiale a domino) o dell’ignoto che farebbe da anteprima al peggio (quale governo sputerà la resistenza? Integralista islamico, al-qaedista, o secolarizzato ma fragile, o “tribale”sunnita, o tributario dell’Occidente, e quindi ai ferri cortissimi con l’Iran?).
Una prudente paura di questo genere resta naturalmente un “diritto”: perfino Israele che, poco tempo fa, tramite Ygal Palmor (portavoce del ministero degli Esteri) intervistato da France 5, diceva “stiamo a vedere”, oggi si sbilancia un po’ più in avanti, oltre Assad, dato per spacciato. Ma questo diritto, oltre ad essere inascoltabile per ogni siriano che non ci sta e che si fa massacrare, ogni giorno, non serve a niente, neanche alla “laicità” della geopolitica. Perché comunque, da almeno un secolo (1914), la pessima sorpresa non prevista né dai governi, né dagli Stati quo (anche quelli più irresponsabili, o indecenti) è stata servita, d’un botto, dalla Storia. Che, si sa, ogni tanto si fa un tragico baffo degli equilibri più protetti, o più editi.
Molto in sintesi, se nel 1938-39, la guerra generale era nelle cose (anche perché a Hitler era stato permesso tutto), nel 1914 lo sparo di Sarajevo non prevedeva la catastrofe mondiale. Tornando all’oggi, lo schema che ogni giorno la rete e i media fanno vedere resta quanto di più angoscioso si possa immaginare: una “primavera” siriana diversa dalle altre, perché il dittatore è più feroce, più rifornito, difeso (Russia, Iran) e strategico, l’impossibilità – forse è troppo tardi – di un tavolo di trattativa (anche perché una delle parti fa parte, di fatto e di diritto, dei “criminali contro l’umanità”), una fila di spettatori della zona in esteso, più o meno attivi (Iran, Turchia, Arabia Saudita, Israele), le cui mosse, o una sola, tutte calcolanti e calcolate, potrebbero sfuggire al programma deterrente. Proprio perché la Storia, ogni tanto, butta lì l’imprudenza invisibile in anticipo. O incalcolabile.
Lo spettatore che oggi parafrasa ironicamente la vecchia espressione – Morire per Aleppo? – risulta, nella migliore delle intenzioni, un po’ ingenuo, o troppo razionale. Con maggior compassione, o anche vista più lunga, potrebbe anche immaginare come quegli oltre 18 mila massacrati, e gli altri che continuano a combattere, siano invece la variabile partigiana meno incognita e più chiara di quello che sta succedendo. A prescindere da quale Siria verrà fuori dopo Assad. Anche perché, per ora, nessuno lo sa.