Addio Europa, anche lo stato sociale emigra verso l’Asia

Addio Europa, anche lo stato sociale emigra verso l’Asia

PECHINO – Manodopera e dipendenti giovani e freschi sono stati uno dei fattori della crescita economica asiatica. Ma con l’aumento delle aspettative di vita e il calo delle nascite i sistemi pensionistici della regione rischiano di essere insufficienti a coprire i bisogni di una popolazione che diventerà sempre più vecchia.

«Ci sono disuguaglianze tra aree urbane e rurali, tra pensionati del settore pubblico e del settore privato, tra quanti hanno un lavoro regolamentato e chi era impiegato in settori informali», ha spiegato Donghyun Park, capo economista dell’Asian Development Bank e curatore di Pension Systems in East and Southeast Asia, ultima pubblicazione in ordine di tempo dell’istituto di Manila sul tema. «Senza riforme, l’onere fiscale per i lavoratori potrebbe essere più costoso dei benefici», ha aggiunto in una nota di presentazione al volume.

Nonostante le differenze tra Paese e Paese la transizione demografica è una delle sfide che tutta l’Asia si troverà ad affrontare nel medio-lungo termine. Le classi dirigenti, si legge nell’introduzione, dovranno pertanto cercare di mantenere una crescita costante, sebbene con condizioni demografiche meno favorevoli, e garantire mezzi di sostentamento adeguati a un numero sempre maggiore di anziani, soprattutto per quanto riguarda le pensioni.

La maggior parte dei Paesi asiatici non ha tuttavia sistemi previdenziali capaci di garantire questa sicurezza economica. A rendere ancora più urgenti le riforme l’erosione di forme di previdenza sociale tradizionale. Il meccanismo sociale le famiglie allargate per cui spetta al figlio prendersi cura dei genitori diventati anziani sta venendo meno con l’industrializzazione e l’urbanizzazione dei paesi asiatici.

Entro il 2015 almeno 200milioni di cinesi avranno superato i 60 anni, più che la popolazione dell’intera Unione europea. Mentre si prevede che la popolazione in età lavorativa inizierà a calare dall’anno prossimo.

Il sistema pensionistico della Repubblica popolare è diverso a seconda che copra aree urbane, campagne o dipendenti pubblici. E i benefici variano da provincia a provincia. Nel settore privato i dipendenti contribuiscono con un quinto del proprio stipendio e una volta in pensione ricevono in media 1,440 yuan al mese (dati 2010), circa 164 euro.

Nel settore pubblico non devono invece versare niente. Se entrambi i sistemi sono obbligatori, quello per le aree rurali è invece su base volontaria ed è stato istituito nel 2008. Secondo gli analisti della Adb occorre inoltre riformare l’età pensionabile ancorata a quando l’aspettativa di vita era ancora bassa e oggi di 60 anni per gli uomini, 55 per le donne colletti bianchi, 50 per le operaie nelle aree urbane e 60 per le donne nelle campagne.

Nella più giovane Indonesia il sistema copre il 100 per cento dei dipendenti pubblici e dei militari, ma soltanto il 14 per cento di tutto il sistema privato formale. Ma, si legge, i programmi pensionistici dovrebbero essere estesi di almeno sette volte.

A rischio è anche il sistema sudcoreano introdotto 23anni fa e obbligatorio per tutti i lavoratori tra i 18 e i 59 anni. Il sistema ha quattro obiettivi: espandere la copertura, dare benefici adeguati, un’equa distribuzione dei costi tra le generazioni e una sostenibilità finanziaria di lungo termine.

Ma essendo quella sudcoreana, tra le società asiatiche, quella che invecchia a ritmo più alto, il sistema rischia di essere insostenibile e già oggi i benefici non sono adeguati alle esigenze. Sotto finanziato è il caso delle Filippine, mentre in Thailandia è coperto soltanto il 27 per cento dei lavoratori nel settore formale e in Vietnam il sistema introdotto nel 2010 copre 9,3 milioni di persone, il 20 per cento della forza lavoro e nei prossimi 30 anni potrebbe entrare in forte deficit.

Come evidenziato all’inizio di settembre da una lunga inchiesta dell’Economist, l’Asia si sta però avviando verso nuova rivoluzione: introduzione di un sistema di Stato sociale. Con l’opportunità di farlo, continua il settimanale britannico, potendo evitare gli errori che sono stati fatti in passato dall’Occidente.

Un esempio su tutti è la riforma sanitaria approvata lo scorso ottobre dalla Camera indonesiana. Ancora a febbraio l’attacco di un articolo del quotidiano Kompas spiegava che in Indonesia ammalarsi è un lusso che i poveri non si possono permettere e per molte famiglie un ricovero verrebbe a costare l’intero stipendio.

Dal 2014 un servizio di previdenza sociale fornirà la copertura sanitaria universale, con particolare attenzione alle fasce più povere delle popolazione che oggi non sono in grado di pagare assicurazioni private.

Il governo di Giacarta prevede di stanziare nella cosiddetta Bpjs Kesehatan 25mila miliardi di rupie, circa 2,1 miliardi di euro. Entro il 2019 la copertura sanitaria sarà garantita a tutti gli indonesiani.

Attualmente il 63 per cento della popolazione ha una copertura sanitaria di qualche tipo, di questi sono 76 milioni quelli che beneficiano dei programmi Jamkesma per i più poveri.

Come ricorda il Jakarta Post, assieme agli altri sistemi di previdenza sociale che prenderanno il via a gennaio del 2015, la sanità sarà uno dei temi su cui gli elettori tra due anni presseranno i candidati alle presidenziali e faranno le loro scelte.
 

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