Fare cose, sempre. Per Andrew Carnegie, il magnate dell’acciaio statunitense tra ottocento e novecento, era una massima che aveva un grande valore. Bastava muovere le mani, e l’intelligenza. «Quando la sorte ci dà in mano un limone, cerchiamo di farne una limonata», diceva. Lui, da parte sua, in mano aveva l’acciaio della Carnegie Steel Company, e ne aveva fatto le reti delle ferrovie che corrono, da Est a Ovest, lungo gli Stati Uniti d’America. Ha consolidato le reti di contatto lungo le coste, e le frontiere. Ha aperto alla conquista dei cieli, con i piedi a terra, con gli alti palazzi dello skyline statunitense. Chilometri di acciaio, creati dagli altoforni arrivano ai binari e agli scheletri dei cantieri. Se li segue a ritroso, si ripercorre la storia di un destino che è anche la più pura incarnazione del sogno americano. «Aim for the highest», diceva Andrew Carnegie. Lui che rappresentava anche la favola del “from rags to riches”, cioè di chi va dagli stracci ai castelli d’oro, grazie alla propria abilità, al lavoro. Perseveranza e voglia di innovare.
Negli stracci, Andrew Carnegie ci era stato davvero, e non si trattava neppure di stracci americani. I suoi primi anni li passa in una casa in pietra all’angolo tra Moodie Street e Priory Lane, a Dunfermline, in Scozia, dove nasce il 25 novembre del 1835. Il paese era uno dei punti nevralgici per l’industria della tessitura del lino e anche William Carnegie, il padre, possedeva un impianto, a cui lavorava. Le nuove tecniche, però, resero in poco tempo il macchinario di William Carnegie obsoleto, e i guadagni scomparvero. Di fronte alla povertà, la madre decise di vendere caramelle e scarpe riparate. Ma non fu sufficiente. Nel 1847 decisero di fuggire dagli stracci: l’unica destinazione possibile, allora, era il sogno dell’America, ad Allegheny City, vicino a Pittsburgh, Pennsylvania.
È l’inizio della scalata di Carnegie: comincia a fare cose, nell’oscurità delle albe americane. Prima, con il padre, entra in una fabbrica di tessuti di cotone e lavora alla spola. Poi, lasciata la fabbrica, diventa fattorino per una compagnia locale di telegrafi. La sua carriera è fulminante. Prima si guadagna la stima per essere il più veloce di tutta la città. Andava di fretta, perché aveva chiesto, al suo superiore, di insegnargli nel tempo libero a disposizione a decrittare i codici telegrafici. Impara subito e viene promosso a operatore telegrafico, riuscendo, narra la leggenda, a decifrare i codici senza trascrizione, ma solo con l’udito. «Entrare nell’ufficio telegrafico», ricorderà in seguito, «fu come passare dal buio alla luce. Non dovevo più accendere un piccolo motore in una squallida stanza, ma avevo intorno giornali, libri, pulizia. Ero il ragazzo più felice del mondo».
La scalata continua, Thomas A. Scott, ai vertici della Western Division della Ferrovie della Pennsylvania, lo vuole come segretario. Da Scott, Andrew Carnegie impara tutto sulle ferrovie, e in poco tempo dopo ne prende il posto, per diventare sovrintendente. Aveva 24 anni. Due anni dopo sarebbe arrivata la guerra di secessione, nel 1861, quando l’Italia si univa.
Carnegie aveva seguito Scott lungo i binari della West Division, e aveva ascoltato anche i suoi consigli in materia di affari, comprando alcune azioni che si sarebbero rivelate fortunate. «Quello era stato il mio primo investimento: 600 dollari per alcune azioni della Adams Express, con un dividendo mensile dell’1 percento. Per ognuno di noi, in famiglia, era una cosa del tutto nuova: eravamo abituati a pensare che solo con il lavoro duro si potesse ricevere qualcosa», raccontò in vecchiaia. Ma era solo l’inizio. L’idea dell’esperimento gli piacque sempre: con T. T: Woodruff, inventore del vagone letto, che aveva incontrato per caso, fondò una piccola società che introdusse (prima volta nel mondo) l’uso dei vagoni letti sulle ferrovie. Da lì comincia ad arricchirsi davvero, e diversifica: compra pezzi di terra per cercare petrolio, e non lo trova. Si scoraggia, ne rivende una parte (quella che riesce) e va in Europa, forse per dimenticare. Ma si sbagliava. Proprio mentre era lontano, viene trovato un giacimento.
Treni, petrolio. Non gli bastava: bisognava costruire ponti, e per farlo serviva il ferro. Era il 1864. A Pittsburgh creò, insieme al fratello, una fabbrica, la Cyclops Iron Company, fino ad allargarla accorpando altre fucine della zona, e facendola diventare la Union Mills, ma fu un fiasco. Il ferro non funzionava più, soppiantato dalla produzione dell’acciaio. Il rischio era di perdere tutto. Carnegie non si perse d’animo e, come sempre, passò all’azione. E all’acciaio. Fu il passo più importante di tutta la sua vita.
Da un viaggio in Inghilterra esportò il nuovo metodo di lavorazione dell’acciaio, il processo Bessemer, e lo applicò alle sue industrie. Creò la più grande stabilimento dell’acciaio negli Stati Uniti, diventando il dominatore di quel mercato, meglio: l’imperatore. Dire acciaio, all’epoca, significava dire Carnegie. Ponti, palazzi, ferrovie. Tutto portava il suo nome. E non per nulla, secondo le stime, era diventato nella storia il secondo uomo più ricco del mondo, con quasi 300 miliardi di dollari. Sopra di lui, solo Rockefeller.
Espandersi era diventato ovvio: Carnegie possedette anche 18 giornali e fabbriche di locomotive. Ma (a parte il tragico episodio dello stabilimento di Homestead, del 1892, in cui lo scontro con i lavoratori finì nel sangue), la cosa notevole della sua vita fu la dedizione alla filantropia. Nel 1901 vende la sua Carnegie Steel Company al suo “collega”, J. P. Morgan, favorendo la nascita della più grande industria dell’acciaio in America, per 480 milioni di dollari («Ma, ripensandoci, avrei potuto avere 100 milioni in più», disse) e spese i ricavi in beneficenza. Scuole, centri di studio, biblioteche, università, per favorire la crescita della conoscenza del mondo. Una specie di restituzione a un antico gesto che lo favorì, quando, da giovanissimo emigrato in America, poté usufruire della biblioteca del Colonnello. «La ricchezza in più è un dono sacro che il suo possessore è tenuto ad amministrare per il bene della sua comunità». Ancora oggi sono tantissime le istituzioni che portano il suo nome.
Morì a Lenox, nel Massachussets l’11 agosto del 1919, e fu sepolto al cimitero di Sleepy Hollow, vicino a New York. Se forse non era vero che il suo obiettivo fosse di «morire povero»,come era nato, di sicuro la sua attività di filantropo era sincera, tanto che la considerava la più «nobile di ogni cosa». Ma non dissennata: «Non c’è nulla di più folle della carità senza ragione» ripeteva nei suoi scritti. I soldi non vanno dati senza un progetto: e il suo era quello di aiutare i giovani, senza risorse, ma con grandi ambizioni. E che avevano gran voglia di fare, senza paura di cambiare e di innovare. Soprattutto, quelli senza paura di fallire, perché fallire è un bene. Insomma, quelli come lui.